Non profit
no al dirigismo, sìalle fondazioni in rete
Il mondo della filantropia si confronta sull'idea di Manes
di Redazione

La proposta di Vincenzo Manes ha il fascino, ma anche i limiti della estrema semplificazione.
Innanzitutto semplificazione nell’analisi, per la quale «analizzando la composizione del settore, appare chiaro come le fondazioni bancaria e quelle di origine individuale o famigliare rappresentino la quasi totalità dei soggetti attivi in Italia».
L’affermazione è quanto meno azzardata. Le fondazioni bancarie sono 88, quindi meno del 2% del totale, e comunque meno del 10% anche volendo far riferimento – più correttamente – alle circa mille fondazioni grant making rilevate dall’Istat. Anche aggiungendo quelle fondate esclusivamente da persone fisiche, ci si aggira intorno alla soglia del 50%: percentuale molto significativa, ma lontana dalla «quasi totalità». Sempre dai dati Istat emerge che anche in termini di entrate e patrimonio l’universo delle fondazioni è articolato e solo in misura parziale (meno del 30% per entrate e donazioni e circa il 60% per patrimonio) riconducibile al modello erogativo al quale fa chiaramente riferimento Manes.
Quindi un fenomeno complesso come quello delle fondazioni va probabilmente analizzato con più attenzione se si vogliono trarre conclusioni di carattere generale.
Peraltro il problema di portare a sistema risorse e operatività delle fondazioni anche per proiettarle sulle prospettive di ampio respiro di cui il Paese ha bisogno è, in ogni caso, all’ordine del giorno. Ma mi chiedo se anche qui non sia un’eccessiva semplificazione ipotizzare la creazione di una grande fondazione ad hoc e proporre che sia finanziata con risorse pubbliche.
Personalmente preferisco immaginare due strade alternative, apparentemente più complesse, ma a mio parere più efficaci e realistiche: quella della collaborazione tra fondazioni e quella della mobilitazione delle risorse private.
Quanto alla collaborazione tra fondazioni, mi pare che gli ultimi tempi stiano mostrando segnali incoraggianti. Per ragioni di spazio non posso citare molte esperienze locali, ma la Fondazione per il Sud, il Fondo d’investimento per la ricerca e quello con Cdp per le infrastrutture sono un esempio della capacità delle fondazioni bancarie di affrontare disegni nazionali di ampio respiro. Certo in questi casi è evidente il ruolo giocato da una struttura associativa come l’Acri; per questo, prima di pensare a nuove megafondazioni nazionali penserei innanzitutto a un luogo nazionale – per questo è nata Assifero – dove le fondazioni di erogazione possano incontrarsi, conoscersi, superare reciproche diffidenze, sciogliere narcisismi e solipsimi per giungere, col tempo, a disegnare prospettive e progetti comuni – magari anche quello di una “fondazione delle fondazioni” – per iniziative nazionali di ampio respiro.
Certo si tratta di una visione diversa da quella di Manes, ma perché non credere nella maturazione del tessuto della società civile anziché introdurre il dirigismo pubblico anche in questo settore che vive dell’essere spazio dell’autonomia della società civile? E ciò riguarda anche il tema della mobilitazione delle risorse. Se è vero, come è vero, che aumenta sempre più la disponibilità di risorse private destinabili a fini di solidarietà, allora favoriamo questo flusso, come si è fatto con la +Dai -Versi, piuttosto che legarsi sempre più al finanziamento pubblico, come si sta facendo col 5 per mille o, peggio ancora, immaginando la destinazione delle risorse delle lotterie (magari per sostenere poi iniziative di contrasto alla dilagante dipendenza da gioco, vera calamità nazionale).
No, la strada è un’altra. È necessario il riconoscimento di uno status fiscale ad hoc dei soggetti della filantropia istituzionale, collegata alla trasparenza e alla verificabilità dei loro comportamenti, con la rimozione di qualsiasi opacità, così da aiutarli e legittimarli nell’acquisire la fiducia e le risorse direttamente dalla gente, contribuendo, in questo modo, anche alla crescita civile e morale del Paese.
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