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odissea eritrea

Dietro il dramma che è costato la vita a 73 immigrati nel Mediterraneo

di Redazione

Titi Tazrar, eritrea di 27 anni, è sopravvissuta alla fame e all’orrore. Unica donna tra i cinque sopravvissuti all’ultima strage della disperazione del Mediterraneo, ha visto 73 compagni di viaggio, quasi tutti connazionali, morire di fame e sete, comprese donne incinte. Per lei ora si apriranno le strette porte dell’asilo politico («che prevale sul reato di clandestinità», spiega il prefetto Morcone, capo del dipartimento per l’Immigrazione del Viminale), e rimarrà in Italia, il suo sogno da sempre.

Gli sos satellitari
«Per gli eritrei però l’Italia non è affatto la meta preferita, solo uno su dieci fino a pochi anni fa si fermava qui, meglio la Gran Bretagna e i Paesi scandinavi. Ma oggi siamo obbligati a rimanere», rivela Mussie Zerai, 34 anni, presidente dell’Agenzia Habeshia, associazione che aiuta gli eritrei immigrati nel nostro Paese. «Dopo la convenzione chiamata Dublino II, ratificata nel 2003 da quasi tutti i Paesi europei, il migrante deve chiedere lo status di rifugiato nel primo Paese occidentale in cui mette piede, e lì rimane», continua Zerai, che è arrivato nel 1992 a Roma da minorenne e che oggi, «dopo aver trovato con mille difficoltà casa e lavoro, grazie all’aiuto della gente comune più che delle istituzioni», sta per concludere il percorso per diventare sacerdote diocesano. Nel frattempo, è diventato un punto di riferimento per la comunità eritrea italiana, che oggi conta 20mila persone arrivate soprattutto negli anni 70-80, ed è diffusa in particolare in Lazio, Lombardia ed Emilia Romagna. È a Zerai, ad esempio, che arrivano gli sos dai satellitari dei connazionali in panne nelle acque del Mediterraneo («nella recente tragedia nessuno s’è fatto sentire, non era mai successo prima», spiega sconcertato) ed è lui che, a volte, segnala alla Guardia costiera competente le coordinate delle barche alla deriva.
«Fino al 2000 erano molto pochi gli eritrei che lasciavano il Paese. Poi, dopo la fine della guerra con l’Etiopia e la svolta sempre più autoritaria del presidente Isaias Afewerki, da liberatore del popolo a dittatore, la fuga è diventata di massa». Almeno 150mila persone sono oggi rifugiate all’estero, la maggior parte nel vicino Sudan. In migliaia, da allora, tentano di raggiungere le coste libiche e da lì partire per l’Europa. Molti non ce la fanno. «I fortunati arrivano in Italia e ottengono asilo politico. Ma qui iniziano tutti gli altri problemi: non hanno né casa né lavoro, e pochi riescono a frequentare un corso di italiano», prosegue Zerai, che ha fondato Habeshia nel 2006 proprio per l’aumento di connazionali in difficoltà, «una volta riconosciuto lo status, vengono lasciati soli (in Italia, ad oggi, manca una vera e propria legge in materia, nonostante negli anni siano state inoltrate varie proposte, ndr). A Roma, ad esempio, c’è chi, con i documenti in regola, vive in baraccopoli o palazzine abbandonate perché non ha alcuna alternativa».
Pochissimi matrimoni misti, e quando va bene lavori saltuari come colf e badanti per le donne, nell’edilizia e nella ristorazione per gli uomini: la sorte dei nuovi arrivati eritrei potrebbe sembrare simile a quella dei migranti di altre nazionalità. Ma non è così. «È addirittura peggio, perché loro devono nascondersi dalle spie», riprende Zerai. Spie? «Proprio così, quelle del governo eritreo, mandate in Italia a scoprire i nomi di chi è scappato dal Paese: da qualche anno una legge obbliga i familiari degli emigranti a pagare una multa salata».

Soldati per forza
La motivazione delle autorità è «l’avere disertato il servizio militare, che in Eritrea non ha una data di conclusione», e quindi nessuno potrebbe andarsene. Nel frattempo, nonostante non ci sia alcuna guerra in corso, migliaia di persone sono costrette a stare sotto le armi. «Mio fratello, ad esempio, è da 15 anni nell’esercito. Con una paga molto bassa, per mantenere la moglie e i due figli devo aiutarlo io dall’Italia», racconta il presidente di Habeshia. Che, anche alla luce dei legami del governo eritreo con la comunità internazionale (l’Italia in primis ha “rapporti di amicizia” con lo stesso Afewerki), di certo non si aspetta un cambiamento della situazione in patria («dove centinaia di persone sono scomparse nel nulla, compresi ex ministri, intellettuali, giornalisti»).
«Piuttosto, spero in un miglioramento delle condizioni di vita di chi riesce ad uscire dal Paese», conclude Zerai. «Per evitare le tragedie in mare basterebbe mettere un “filtro” in Libia, gestito magari dall’Acnur (l’Alto commissiariato delle Nazioni Unite) che regoli il numero degli ingressi vagliando le richieste di asilo delle persone. Noi associazioni lo chiediamo da tempo, così come aspettiamo da anni che in Italia arrivi una legge organica sui richiedenti asilo».

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