Non profit
odissea eritrea
Dietro il dramma che è costato la vita a 73 immigrati nel Mediterraneo
di Redazione

Titi Tazrar, eritrea di 27 anni, è sopravvissuta alla fame e all’orrore. Unica donna tra i cinque sopravvissuti all’ultima strage della disperazione del Mediterraneo, ha visto 73 compagni di viaggio, quasi tutti connazionali, morire di fame e sete, comprese donne incinte. Per lei ora si apriranno le strette porte dell’asilo politico («che prevale sul reato di clandestinità», spiega il prefetto Morcone, capo del dipartimento per l’Immigrazione del Viminale), e rimarrà in Italia, il suo sogno da sempre.
«Fino al 2000 erano molto pochi gli eritrei che lasciavano il Paese. Poi, dopo la fine della guerra con l’Etiopia e la svolta sempre più autoritaria del presidente Isaias Afewerki, da liberatore del popolo a dittatore, la fuga è diventata di massa». Almeno 150mila persone sono oggi rifugiate all’estero, la maggior parte nel vicino Sudan. In migliaia, da allora, tentano di raggiungere le coste libiche e da lì partire per l’Europa. Molti non ce la fanno. «I fortunati arrivano in Italia e ottengono asilo politico. Ma qui iniziano tutti gli altri problemi: non hanno né casa né lavoro, e pochi riescono a frequentare un corso di italiano», prosegue Zerai, che ha fondato Habeshia nel 2006 proprio per l’aumento di connazionali in difficoltà, «una volta riconosciuto lo status, vengono lasciati soli (in Italia, ad oggi, manca una vera e propria legge in materia, nonostante negli anni siano state inoltrate varie proposte, ndr). A Roma, ad esempio, c’è chi, con i documenti in regola, vive in baraccopoli o palazzine abbandonate perché non ha alcuna alternativa».
Pochissimi matrimoni misti, e quando va bene lavori saltuari come colf e badanti per le donne, nell’edilizia e nella ristorazione per gli uomini: la sorte dei nuovi arrivati eritrei potrebbe sembrare simile a quella dei migranti di altre nazionalità. Ma non è così. «È addirittura peggio, perché loro devono nascondersi dalle spie», riprende Zerai. Spie? «Proprio così, quelle del governo eritreo, mandate in Italia a scoprire i nomi di chi è scappato dal Paese: da qualche anno una legge obbliga i familiari degli emigranti a pagare una multa salata».
«Piuttosto, spero in un miglioramento delle condizioni di vita di chi riesce ad uscire dal Paese», conclude Zerai. «Per evitare le tragedie in mare basterebbe mettere un “filtro” in Libia, gestito magari dall’Acnur (l’Alto commissiariato delle Nazioni Unite) che regoli il numero degli ingressi vagliando le richieste di asilo delle persone. Noi associazioni lo chiediamo da tempo, così come aspettiamo da anni che in Italia arrivi una legge organica sui richiedenti asilo».
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