Pochi giorni prima del Natale ho avuto la fortuna di condividere con padre Giuseppe Bettoni, presidente di Arché, l’associazione di volontari che seguono da vicino l’esistenza dei bambini più fragili, a partire dall’esperienza dei bimbi sieropositivi, un “dialogo sulla felicità”, che ci ha portati a ragionare insieme per oltre un’ora, cercando di lanciare ai tanti giovani presenti, ma anche agli adulti e agli anziani, un messaggio di ragionata speranza.
Mi piace oggi affidare anche a voi le parole di don Giuseppe. Non sarei mai stato capace di trovarne di migliori: «Nella lingua ebraica la parola speranza è equivalente, nel suffisso radicale, alla parola cisterna. La speranza è come una cisterna di acqua freschissima, nel cuore del deserto, nell’arsura dell’odio. Ma la speranza d’altronde, così come la cisterna, va curata perché si può svuotare, d’improvviso o lentamente, giorno per giorno, goccia dopo goccia. Si svuota per una delusione, un dolore troppo grande, un abbandono improvviso. La cisterna della speranza si svuota quando trascuriamo le crepe sottili, quelle invisibili all’occhio veloce e superficiale. Allora la cisterna lentamente si svuota, per quell’indugiare al lamento che ci fa ripetere tristemente che ormai non c’è più nulla da fare, che abbiamo provato tutto, che tanto nessuno ci vede e nessuno ci dice grazie. Frasi terribili che svuotano anche la cisterna più capiente. Ma c’è anche un agire nella logica della speranza, quando la cisterna si riempie, se mi impegno e mi assumo responsabilmente la vita di chi mi circonda, facendo e operando, sempre insieme, senza protagonismi, in un cammino che poggia sull’umiltà. La cisterna si riempie quando so valorizzare i piccoli passi miei, della mia comunità, di chi mi sta accanto. Quando so cogliere i germogli, pur su rami secchi, non sempre facili da scorgere, e non mi fermo a denigrare le foglie secche che si notano subito ai piedi dell’albero». Grazie, padre Giuseppe. Buon anno a tutti.
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