In un cubicolo sulla via Ostiense, gli archeologi hanno portato alla luce la più antica immagine di San Paolo. Sarebbe datata al IV secolo. Il volto è quello suo noto, allungato, calvo, emaciato. Il volto di un uomo molto contemporaneo, come aveva colto Pier Paolo Pasolini scrivendo 40 anni fa la sceneggiatura di un film che non avrebbe mai potuto girare. Ecco la prima pagina, in cui entra in gioco un Paolo davvero contemporaneo…
L’idea poetica – che dovrebbe diventare insieme il filo conduttore del film – e anche la sua novità – consiste nel trasporre l’intera vicenda di San Paolo ai nostri giorni.
Qual è la ragione per cui vorrei trasporre la vicenda terrena ai nostri giorni? È molto semplice: per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’espressione e la convinzione della sua attualità.
Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore che, «San Paolo è qui, oggi, tra noi» e che lo è fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia. Tale violenza temporale usata alla vita di San Paolo, così fatta riaccadere nel cuore degli anni 60, richiede naturalmente tutta una lunga serie di trasposizioni. La prima e capitale di queste trasposizioni, consiste nel sostituire il conformismo dei tempi di Paolo, (o meglio due conformismi, quello dei giudei e quello dei gentili), con un conformismo contemporaneo: che sarà dunque quello tipico dell’attuale civilità borghese.
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