Non profit

Per fare un buon caffè i nostri contadini vanno all’università

di Redazione

Acquistare la materia prima migliore. E stabilire un contatto diretto con i coltivatori per insegnare come si produce un chicco di qualità superiore. Attraverso le Università del caffè e una community che fa circolare know-how e informazioni«Non è una macchina per fare profitti, ma un’istituzione per migliorare la qualità della vita». Andrea Illy, 47 anni, è la terza generazione al vertice dell’azienda di Trieste, nata 70 anni fa, che con il suo caffè è una delle bandiere del made in Italy. Con un processo produttivo, il primo al mondo, a essere certificato “sostenibile” a 360 gradi lungo tutta la filiera. A partire dal rapporto con i produttori di caffè in America Latina, Africa, Asia. Che non sergue la normale logica fornitore-compratore, anzi. «Se nei primi anni di vita dell’azienda era riuscita approvvigionarsi di caffè attraverso dei broker, che facevano loro una selezione del meglio, a un certo punto abbiamo cominciato a prendere direttamente noi contatto con i produttori, con i contadini e i consorzi di contadini. La prima volta è stata nel 1991, in Brasile, quando abbiamo lanciato un concorso per “la migliore qualità dell’espresso”. E da lì abbiamo capito che i miglioramenti possibili, lavorando a stretto contatto con i produttori in loco e saltando gli intermediari, erano straordinari. Tanto che oggi compriamo il 100% del caffè attraverso questo approccio».
Formula azzeccata. E poi?
Poi via via abbiamo capito che per rendere il meccanismo più efficace ed efficiente bisognava fare un investimento sullo scambio di conoscenza. E così abbiamo dato vita, nel 2000, all’Università del caffè, una realtà innovativa in questo settore, che ha l’obiettivo di oggettivare le conoscenze sui fattori che danno un prodotto di qualità, e di trasferirle quindi ai produttori aiutandoli a migliorare i loro standard e – di conseguenza – a migliorare i nostri stessi standard. Tant’è che oggi compriamo uno standard che è considerato fuori mercato dal punto di vista delle specifiche qualitative. In particolare i corsi – che svolgiamo in collaborazione con le università dei Paesi produttori come Brasile, Egitto, India, Cina, Corea del Sud -, riguardano le tecniche di coltivazione, l’uso di concimi non aggressivi, le corrette modalità di raccolta, le migliori tecniche di lavorazione e l’adeguata gestione economica dell’impresa. Quindi, abbiamo dato vita a una community.
Di che cosa si occupa la community?
Appartenere alla nostra rete per i produttori significa ricevere valore sotto forma di migliori margini, di minore rischio, di un premium prize per la qualità. La community aiuta a far crescere il rapporto commerciale in maniera stabile e sostenibile.
Come fidelizzate i produttori?
Le persone che scelgono di lavorare con noi condividono anche la nostra filosofia. Hanno desiderio di migliorare, di imparare, di guadagnare di più, di aver conoscenze da tramandare da padre in figlio. Stabilite tali affinità elettive, è difficile che queste persone siano infedeli. In ogni caso, da ciascuno dei nostri produttori compriamo il 20% della produzione, il cuore. La restante parte i produttori la mettono sul mercato, ed essendo di alta qualità i contadini la possono vendere meglio. Con i maggiori guadagni i produttori riescono a investire nella loro struttura produttiva, ad esempio acquistando apparecchiature nuove. Certo, è anche successo che qualcuno a un certo punto, o perché non raggiunge lo standard o perché ha cambiato orientamento, si tiene il know-how che gli abbiamo dato e va per la sua strada.
Qual è la differenza tra il vostro sistema e il Fairtrade?
Il commercio equo e solidale certifica che il prezzo del caffè è equo perché lascia al produttore un sufficiente margine economico. Per accedere a questo circuito il singolo produttore deve comprare royalties, senza però avere la garanzia che il suo caffè sia acquistato. In questo caso a carico del contadino rimangono i costi di produzione e di royalties. Chi decide di uscire dal circuito, torna nella situazione precedente, con le stesse difficoltà. Il consumatori di fronte a questi prodotti ha un approccio solidaristico, di acquisto occasionale. Noi offriamo un prodotto di qualità superiore che il consumatore è disposto a pagare di più e che continua a consumare. C’è un margine per la nostra azienda che viene reinvestito nel sistema e riesce a pagare bene il produttore, che riesce a tenere alti gli standard di qualità, aiutato dagli esperti scientifici e economici dell’università del caffè. Il produttore non ha nessun costo. Non gli chiediamo nessuna certificazione.
Invece come impresa avete sentito il bisogno di certificarvi…
Sino a qualche anno fa nel nostro settore non esistevano normative che disciplinavano gli standard di qualità da seguire. Ci siamo rivolti a DNV- Det Norske Veritas, leader della certificazione, che ci ha proposto un loro standard facoltativo – ancorchè accreditato – e di eseguire loro il lavoro di valutazione.
Questo modo di produrre ha permesso di aumentare il fatturato?
Sono la qualità e la reputazione che fanno aumentare il fatturato. Purtroppo invece spesso le certificazioni vengono usate come strumento di marketing, e questo a noi non piace. Non ci facciamo belli del fatto che operiamo con certi tipi di valori. Tanto che non abbiamo mai fatto una campagna pubblicitaria per presentare la certificazione. La certificazione ci deve essere perché fa parte della cose necessarie di un’impresa, ma lo strumento di marketing deve rimanere la qualità del prodotto.
Si può parlare di “responsabilità sociale” per l’azienda Illy?
Ci guidano due valori fondamentali: primo, la passione per l’eccellenza, che vuol dire l’amore per il bello e per le cose ben fatte. Secondo, un’etica intesa come costruzione di valore nel lungo termine attraverso l’investimento sull’individuo, la trasparenza e la sostenibilità, il rapporto con gli stakeholder che per noi sono i consumatori, i clienti, i fornitori, i collaboratori, le comunità e gli azionisti.
E i dipendenti?
Sono orgogliosi, hanno un forte senso di appartenenza. Si sentono parte, più che di un’azienda, di un’istituzione sociale che persegue il miglioramento della vita.

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