Non profit

Per guarire il welfare arruoliamo medici

Johnny Dotti

di Redazione

Coca-cola e popcorn. Immaginatevi gli studenti quando hanno saputo che avrebbero dovuto portarli in aula. Una sorpresa in più, regalata loro da un prof “speciale”, Johnny Dotti, presidente di Welfare Italia e già capo del gruppo cooperativo Cgm: «Così hanno potuto accogliere Roberto, psicotico che da 20 anni lavora nella cooperazione. L’ho invitato per parlare non dell’handicap in generale, ma della sua vita», spiega lui, oggi anche docente di Analisi e gestione di fenomeni sociali complessi alla Cattolica di Milano. Un corso che gli si addice. «Insegnare vuol dire sottoporre a verifica dei significati. Quando esponi le cose al mare aperto della curiosità di giovani che non sanno nulla di cooperazione, allora sei sfidato. È un po’ quello che sta facendo Welfare Italia con la sua mission di costruire alleanze forti e stabili con partner del settore pubblico e privato per dare risposte concrete ai bisogni delle persone. L’attività di “cooperatori” in questi anni si è chiusa in un linguaggio, in una semantica troppo elitaria».
Schemi che intendete allargare?
Vogliamo impattare sulla normalità. La parola “solidarietà” vale solo quando c’è una asimmetria di competenze, come quelle tra un operatore e un disabile, o anche tra pari? O ha ancor più senso per chi sta entrando in un mondo competitivo e immagina che sia una chiave interpretativa della vita? Ai ragazzi ho chiesto di essere solidali con i non frequentanti, così ho proposto: «Costruiamo insieme una dispensa». Li ha disorientati, ma per me cooperare è la base della sociologia, dell’economia, dell’azione sociale.
Anche di quella di Welfare Italia. Dove vi sta portando questa esperienza?
Ad affrontare il tema della salute che riguarda tutti, non intaccando le risorse pubbliche, e ad affermare una nuova responsabilità. È insostenibile un immaginario di bisogni infiniti, cui dovrebbero corrispondere risorse infinite. È chiaro che non è possibile legittimare qualsiasi tipo di bisogno. Non si può dire che occorre rifare un seno a 14 anni per evitare problemi psicologici…. Intervenire nella salute per noi significa intervenire sulla cultura condivisa, immaginare un sistema in cui ci sia un chiaro rapporto fra qualità delle prestazioni, costo, responsabilità individuale e responsabilità collettiva. Responsabilizzando economicamente e aggregando la domanda contieni il bisogno e gli dai una gerarchia.
Un bisogno in continua crescita…
Vale fra i 30 e i 50 miliardi l’anno. È uno dei settori più interessanti per il grande capitale. Welfare Italia è piccola, ma affronta una sfida di senso. Se ragionassimo in termini di pura funzione, avremmo solo il problema di garantire un numero di prestazioni per avere un buon rapporto fra costi e ricavi. Per noi una visita non deve durare meno di 20 minuti, deve consentire un dialogo. Una buona relazione stabilizza anche una buona economia, rende più certi anche i flussi economici.
In molti vorrebbero entrare in questo business.
I grandi fondi pensione sono già entrati, e il loro intervento risponde a una logica di massimizzazione del profitto. Questo avviene senza alcuna concertazione istituzionale. Che rapporto c’è fra non profit, istituzioni e queste nuove forme di aggregazione legate ai grandi flussi finanziari? Nessuno. Occorrerebbe che la domanda controllasse davvero l’offerta.
Oggi non avviene?
Non mi pare. Negli ultimi mesi sono stati accreditati 300 fondi sanitari integrativi: sette milioni di lavoratori hanno a disposizione prestazioni integrative di cui magari non sanno nulla. La sfida è creare forme di aggregazione della domanda che spingano verso nuove forme di aggregazione dell’offerta.
Non c’è rischio che troppi soggetti si improvvisino aggregatori di domanda?
È ancor più grave che domani il non profit sia servo delle assicurazioni, che gestiranno i fondi sanitari integrativi. Ai quali il terzo settore sarà chiamato a fornire i servizi, magari al massimo ribasso. Servirebbe un po’ più di pensiero politico. Lo dico sempre alle Regioni con cui parlo: istituite un vostro fondo sanitario magari scegliendo di premiare i meritevoli, coloro che inseriscono il tema della non autosufficienza, che scorporano il fondo nazionale in fondi territoriali e che possano essere gestiti democraticamente. Fondi in cui costruire una compartecipazione dei lavoratori e magari integrare chi non ha reddito.
E in tutto ciò, la cooperazione sociale?
Quando parli di numeri ridotti e forte focalizzazione comunitaria, è il miglior strumento: fa ottimi micro-interventi di tipo artigianale. Ma quando devi generare una discontinuità e una allocazione diversa, questa prospettiva non va più bene.
Una frattura, nella sua esperienza…
Per me la cooperazione continua ad avere una gran valore. Ricordo che vivo in una piccola comunità di famiglie e che abbiamo una cooperativa sociale che fa servizi di accoglienza. Non sottovaluto la dimensione artigiana. Sono grato alla rete di artigiani che è proprietaria di Welfare Italia servizi: è come se la Fiat fosse di proprietà della rete dei suoi fornitori. I 200mila euro con cui Cgm partecipa al nostro capitale sociale significa che le cooperative sociali hanno deciso di promuovere una cosa più grande di loro: investono risorse, creano poliambulatori e posti di lavoro, fanno alleanze con nuovi soggetti. La domanda è: dov’è il terzo settore. Dove sono Acli, Arci, Csv?
I Csv potrebbero rispondere che hanno fondi vincolati.
Appunto: bisogna produrre altre risorse. Il nostro meccanismo sta dentro un’idea interpretativa del mercato e promuove un ragionamento sulla produzione del valore.
Perché il non profit resta nella nicchia?
Perché è drogato di soldi pubblici. È una tossicodipendenza dal punto di vista economico e della mediazione politica.
Il 5 per mille gli ha dato il colpo di grazia?
Forse ha illuso che bastasse una strategia di marketing, che non si dovesse toccare la produzione del valore.
Che bilancio fa di questa nuova avventura?
Mi sento in una terra di nessuno. Non perché mi piace la solitudine, ma perché credo che stiamo attraversando una frontiera reale. Vita è uno dei pochi compagni di viaggio, mi piacerebbe averne di più. Quello che mi dà speranza è che continuo a fare sempre incontri buoni e inaspettati.

Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?

Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it