Non solo povertà educativa
Per il disagio dei ragazzi serve una parola nuova: edupsicopenia
Il Centro italiano aiuti all'infanzia lancia un neologismo per descrivere la frequente coesistenza di povertà educativa e malessere psicologico. Nessuna equazione, ma una complessità che ci sfida a pensare interventi multifattoriali, gli unici efficaci. La parola? Edupsicoπenia

Ci vuole una parola nuova, per dire una realtà nuova. La parola è edupsicopenia, si rifà chiaramente al greco e l’ha coniata il Centro Italiano Aiuti all’Infanzia-Ciai per restituire con maggiore ricchezza di sfumature i bisogni dei tanti bambini e adolescenti cje incontra nei suoi presidi educativi, attualmente attivi a Milano, Palermo e Bari. È l’esperienza sul campo, affiancata da una solida consapevolezza scientifica, che porta ad evidenziare il fenomeno dell’edupsicopenia (edupsicoπenia), che si verifica là dove alla povertà educativa si affianca anche un malessere psicologico, anche profondo. Sempre più spesso le due cose si intrecciano e un intervento efficace non può non guardare a entrambe, con uno sguardo integrato fin dalla progettazione dell’intervento.
A spiegare il senso della parola edupsicopenia e la complessità della condizione che essa descrive sono Paola Cristoferi, responsabile del Programma Italia di Ciai e Alessandra Santona, professoressa ordinaria di Psicologia Dinamica all’Università Milano Bicocca e responsabile scientifica del Ciai.
Qual è la nuova realtà che avete osservato tra i bambini e gli adolescenti?
Paola Cristoferi: Ovviamente non abbiamo scoperto qualcosa di assolutamente nuovo. Il fatto che esista un’associazione significativa tra povertà educativa e disagio psicologico giovanile è qualcosa che sta nella consapevolezza di tutti coloro che si occupano di minori, di adolescenti, di scuola, di educazione, di contesti svantaggiati. Lo vediamo tutti i giorni, in bambini e bambine concreti. È una cosa tanto diffusa che abbiamo sentito il bisogno di una parola per dirla.
Perché?
Cristoferi: Perché con le parole esistenti avevamo difficoltà ad esprimere un contesto così complesso qual è quello che osserviamo nei presidi educativi. Non abbiamo la presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per descrivere la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due fenomeni che ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati – come due fenomeni diversi. In questi anni abbiamo imparato tutti a parlare di povertà educativa minorile, abbiamo imparato a differenziarla dalla povertà materiale e abbiamo iniziato a capire che cosa ci sta dietro. Siamo arrivati a riconoscere che la povertà educativa non è semplicemente un tema di insuccesso scolastico, ma è l’impossibilità di accedere a delle possibilità in più, oltre a quelle che l’istruzione pubblica offre. È l’impossibilità di essere accompagnati quando si hanno delle difficoltà a riconoscere i propri talenti e le proprie capacità. Se l’educazione ha a che fare con il tema del fiorire, la povertà educativa è il rimanere indietro in questo fiorire, il rimanere passivi, diciamo così.
Non abbiamo la presunzione di pensare che edupsicopenia sia la parola perfetta per descrivere la realtà, ma sicuramente ci permette di mettere insieme due fenomeni che ancora troppo spesso sono pensati – e di conseguenza affrontati – come due fenomeni diversi
Paola Cristoferi, responsabile Programma Italia di Ciai
Poi è arrivato il Covid e tutti hanno iniziato a parlare del malessere psicologico degli adolescenti…
Cristoferi: Come sappiamo, il Covid ha fatto solo da amplificatore. Però sì, nel post-Covid è emersa con forza questa emergenza del malessere psicologico degli adolescenti, ma io direi anche dei preadolescenti: non è solo qualcosa che noi operatori intercettiamo, è proprio che i ragazzi questo malessere lo esprimono sempre di più e sempre prima, è aumentata tantissimo anche la consapevolezza del malessere. Quindi ci siamo resi conto che guardare a questi due fenomeni come a due cose distinte significava delegare il primo tema al mondo dell’educazione e il secondo al mondo della psicologia, senza capire che ormai davvero – nelle scuole ma anche negli interventi del sociale – il bisogno più forte è quello di integrare i saperi e gli sguardi. Questo tecnicamente significa essere capaci di parlare linguaggi diversi, di confrontarsi con competenze e specialisti diversi, ma dall’altra parte vuol dire anche osservare, concretamente, che un bambino che va male a scuola ha dietro quasi sicuramente dell’altro e quell’andare male a scuola genera dei vissuti che possono diventare anche fattori di rischio non solo per un abbandono scolastico ma anche per un ritiro sociale per esempio. Voglio essere chiara, questo non significa avere un approccio determinista o meccanicistico, però sicuramente noi vediamo che i problemi spesso sono tanti tasselli che si uniscono tra loro. Di conseguenza, se non hai la capacità di cogliere come questi aspetti rischiano di integrarsi fra loro, finisci per guardare soltanto un lato della luna.
Come possiamo descrivere meglio questa realtà degli adolescenti di oggi, che ci porta a sentire l’esigenza di un termine nuovo?
Alessandra Santona: La edupsicopenia è un fenomeno multidimensionale, le cui dimensioni principali sono appunto il malessere psicologico e la difficoltà ad accedere alle risorse, quindi tutto il tema della povertà educativa. La copresenza di queste due dimensioni nell’esperienza della medesima persona è ormai nota alla letteratura scientifica, agli operatori che lavorano con i bambini e agli psicologi. Una meta-analisi realizzata nel 2023 mette in evidenza che le giovani e i giovani provenienti da contesti di povertà educativa mostrano livelli più elevati di malessere psicologico, caratterizzato da sintomi come ansia, depressione, bassa autostima e sentimenti di isolamento. Quella sulla correlazione tra due dimensioni distinte della povertà è una riflessione che è già stata fatta parlando di povertà economica e di povertà educativa. Un passaggio simile, in questo momento, siamo chiamati a farlo sul versante psicologico: non vuol dire che tutte le volte in cui c’è un basso accesso alle risorse (soprattutto a quelle educative) c’è anche una forte dimensione di malessere psicologico, affettivo e relazionale… Nessuna equazione, piuttosto un indicatore di rischio che ci richiama ad immaginare che c’è una fetta molto ampia dei bambini e delle bambine che vivono l’esperienza della povertà educativa che possono avere anche sintomi che hanno a che vedere con le loro potenzialità di crescita in senso più ampio, con caratteristiche che minano la strutturazione della loro persona. A quel punto potremmo fare un intervento di massimizzazione del benessere oppure un intervento preventivo.
Che cosa cambia il fatto di iniziare a considerare il fenomeno come composto da entrambe queste due dimensioni?
Santona: Innanzitutto che andremo a programmare gli interventi tenendole presenti entrambe, riducendo gli interventi che prendono in considerazione solo uno o solo l’altro aspetto, perdendo di efficacia. Quello dell’efficacia dell’intervento è un tema molto importante, che Ciai introducendo questo neologismo vuole sottolineare. Interventi multifattoriali, dove le risposte al disagio psicologico e quelle al disagio rispetto all’accesso alle risorse educative viaggiano di pari passo nel medesimo progetto, con interventi psicoeducativi o educativi-psicologici – visto l’ordine delle parole – che permettano sia l’accesso alle risorse educative sia il supporto personale, coinvolgendo tutte quelle dimensioni che massimizzano il benessere delle persone.

Questo è un tema centrale: come si risponde al bisogno multifattoriale e complesso che avete appena descritto? Davvero finora abbiamo dato per lo più risposte che guardano solo a uno dei due elementi?
Cristoferi: Sempre no, lo stessi Ciai – e non da oggi – ha équipe dove sono presenti entrambi gli sguardi, quello educativo e quello psicologico, vuoi perché gli educatori sono anche psicologi, vuoi perché gli educatori sono accompagnati da una figura che ha una competenza psicologica, che fa anche un lavoro di osservazione dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze e di supporto alle famiglie. Le parole multidimensionale e integrazione rappresentano moltissimo l’approccio di Ciai, che si traduce anche nella costruzione di una comunità competente rispetto a questo fenomeno multidimensionale. Quello che voglio dire è che Ciai – o un altro ente – può anche avere competenze interne che sono sia educative sia psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su questo approccio multidimensionale.
Ciai – o un altro ente – può anche avere competenze interne sia educative sia psicologiche, ma questo non basta. Serve una cultura diffusa su questo approccio multidimensionale
Paola Cristoferi
Se pensiamo alla scuola, per esempio, la cronaca continua a riportarci che questo sguardo multifattoriale, che tenga insieme tutti gli aspetti della persona, manca anche se i ragazzi lo chiedono esplicitamente…
Cristoferi: La scuola ovviamente è competente rispetto delle questioni educative, però in certe situazioni mettere in campo solo quel tipo di risposta non è efficace perché dietro ci sono dei vissuti personali e delle condizioni familiari che per forza devono essere prese in considerazione per poter fare un intervento che sia efficace anche sul versante educativo. Ma non è solo la scuola: dobbiamo far crescere questo tipo di approccio anche nel Terzo settore e nei servizi sociali. Spessissimo ci troviamo a “riavvolgere il filo” della storia di un bambino e a capire che dobbiamo tirar dentro la scuola, i genitori, la catechista piuttosto che l’imam, la comunità di appartenenza… È questa integrazione di sguardi diversi, anche informali, che poi rende davvero efficace l’intervento.
Qual è allora la sfida che questa parola esplicita?
Santona: Direi che a partire da una lunga esperienza affiancata da una solida consapevolezza scientifica, con la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di questi temi – e naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un fenomeno complesso che non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto di vista. Non è banale, perché nella realtà sociale spesso bellissimi interventi sono stati fatti considerando queste due dimensioni a se stanti. Ma quell’approccio vanifica l’impegno profuso. Vale per la scuola, quando non considera la dimensione psicologica così come per noi psicologi, che a volte pensiamo che basti poi stare nel nostro studio e aiutare le persone a lavorare sulla propria autostima. La vera sfida è riuscire a costruire progetti che tengano conto della molteplicità delle dimensioni coinvolte e che pensino l’intervento tenendole insieme dal principio.
Con la parola edupsicopenia Ciai pone di fronte chi si occupa di questi temi – e naturalmente a noi stessi – la sfida di considerarlo un fenomeno complesso che non può essere affrontato solo da uno o dall’altro punto di vista
Alessandra Santona, professoressa di psicologa, responsabile scientifica di Ciai
Che cosa cambia da oggi per Ciai nella progettazione del suo intervento?
Cristoferi: Avremo un impegno ancora maggiore a tenere a mente questa sfida, nel provare a tener testa a questa complessità, a starci dentro senza sottrarci agli specialismi, ovviamente, ma cercando di coltivare la capacità di integrare gli sguardi.
Santona: Che è una sfida sociale, se ci pensiamo. Abbiamo attraversato anni molto fruttuosi, in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha portato a tante consapevolezze importanti. È come se ora ci ricordassimo che abbiamo un po’ scordato la persona come una dimensione unitaria, dove tutte le cose si influenzano l’una con l’altra in maniera osmotica. L’iperspecializzazione fa perdere di efficacia. Quindi la sfida è filosofica, politica, sociale: l’idea di guardare la complessità come punto di partenza e non usare il riduzionismo per perdere la soggettività. Di fronte a problemi complessi, le risposte devono essere integrate. Per me la vera sfida è considerare ogni aspetto come una possibile porta di ingresso, che appunto sono tante e non possono essere codificate da principio.
Abbiamo attraversato anni molto fruttuosi, in cui la parcellizzazione dei saperi ci ha portato a tante consapevolezze importanti. Ma l’iperspecializzazione fa perdere di efficacia
Alessandra Santona
La richiesta di essere attenti alla persona, con tutti i suoi aspetti, è esattamente quello che ci stanno dicendo i ragazzi che fanno per scelta “scena muta” all’orale della maturità. No?
Santona: Io sono un docente universitario ma sono molto favorevole alle loro posizioni, sia perché mi sembra una posizione attiva dopo tanti anni in cui gli abbiamo tolto la possibilità di parola. Si stanno riprendendo uno spazio, in modo più o meno adeguato, più o meno composto: ma va bene, sono adolescenti, è giusto che la loro modalità sia scomposta. I ragazzi – che sia nei questionari che gli proponiamo all’università o con questa modalità al liceo – continuano a dirci che loro da noi adulti vorrebbero uno sguardo più umano, che fossimo in grado di vederli come persone e anche che noi ci proponessimo come persone, che non ci riconoscessimo soltanto in una funzione. Che noi non fossimo degli insegnanti, ma delle persone che insegnano. E loro delle persone che apprendono. È quello a cui ci richiama l’Unione europea da tanti anni, dicendoci appunto che più che degli apprendimenti dobbiamo occuparci delle persone che apprendono e del modo in cui si apprende. Continuiamo a raccontarcelo, lo scriviamo nelle pubblicazioni ma poi di fatto…
Perché di fronte a queste proteste dei ragazzi, come mondo adulto ci viene un po’ da liquidare questa loro richiesta di essere visti come persone e poi però li mandiamo e andiamo tutti dallo psicologo alla prima difficoltà?
Santona: Mi veniva da rispondere questa generazione di adulti manda i figli dallo psicologo, però poi non vuole che quello che il figlio con l’aiuto dello psicologo capisce, venga poi detto pubblicamente, diventi legittimazione di un bisogno.
Cristofori: Io ho in mente una frase che ho letto proprio su VITA, dove una ragazza diceva: “Voi vi lamentate che siamo fragili, ma siamo la prima generazione che è capace di dirlo”. Mi ha abbastanza illuminato, perché effettivamente è questo. Nel momento in cui i ragazzi ci dicono “vogliamo un mondo più umano”, siccome questa cosa è difficile per gli adulti da fare, la releghiamo a scompostezza adolescenziale.
Nessuno ti regala niente, noi sì
Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.