Cultura
Perché sugli stranieri si sbaglia sempre quota
Una richiesta cinque volte superiore al numero stabilito dal decreto. Che pure era più 70mila rispetto al 2005. Colpa di un meccanismo con troppe falle. Di Daniela Verlicchi
di Redazione
Quote: la parola che ogni anno tiene in sospeso il destino di migliaia di persone in cerca di una regolarizzazione. È successo anche quest?anno, nonostante l?apertura di quasi 7mila uffici postali nel pomeriggio di martedì 14 marzo che ha reso meno massacranti le code rispetto a quando ci si doveva rivolgere ai 120 uffici del lavoro. Ma il principio delle quote (quest?anno 170mila ingressi; oltre 70mila in più dello scorso anno), è un buon principio?
«Di primo acchito, sì: il principio alla base della determinazione delle quote è più che ragionato», spiega Michele Colasanto, professore di sociologia all?università Cattolica e responsabile scientifico del gruppo Lavoro dell?Ismu, la Fondazione di studi sulla multietnicità. «La legge 189 del 2002 prevede infatti che le quote vengano stabilite ex post, sulla base del fabbisogno espresso a livello territoriale. Le Regioni entro il 30 novembre di ogni anno devono trasmettere alla Presidenza del Consiglio le loro indicazioni sulle capacità di assorbimento all?interno del territorio».
Un meccanismo che, se funzionasse a dovere, permetterebbe di regolare l?assorbimento di nuova manodopera sul territorio e di riempire i ?vuoti? lasciati dall?offerta autoctona. Ma qual è il problema? «Prima di tutto, la stima del fabbisogno di manodopera a livello locale si basa su una sostanziale assenza di metodologia e su una debolezza intrinseca degli strumenti che la determinano», spiega Colasanto. Cioè? «Fonti statistiche attendibili ce ne sono, ma spesso prevale un atteggiamento empirico sull?interpretazione di tale fabbisogno».
La lettura della domanda di lavoro a livello locale è complicata da tanti fattori, prima di tutto la necessità di prevedere le condizioni di un mercato del lavoro sempre in evoluzione. E l?empirismo, certo, non aiuta. Ed è per questo che qualcuno propone di programmare l?ingresso degli stranieri con scadenze più frequenti. «Non basta determinare le quote d?ingresso una volta l?anno», sostiene Franco Pittau, responsabile Migranti della Caritas italiana. Che chiede un innalzamento della quota a 200mila, escludendo gli stagionali (che sono 30mila). «Per il futuro si potrà migliorare la legge per attuare procedure più agevoli e rispondere alle esigenze fondate di famiglie e di aziende. Si potrebbero ritoccare altri parti normative, prevedendo ad esempio lavoratori stagionali anche per il servizio familiare o ripristinando il permesso per la ricerca del posto di lavoro».
La domanda di lavoro per quel che riguarda la manodopera immigrata è determinata in primo luogo dalle imprese e in secondo luogo dalle famiglie. E se le prime si stanno dotando di strumenti per la rilevazione del fabbisogni, per quanto riguarda le famiglie questi strumenti mancano del tutto. «Altro problema è poi la mancanza di coordinamento e comunicazione tra le istituzioni che determinano le quote d?ingresso», aggiunge Colasanto. La raccolta dati a livello della singola istituzione viene fatta autonomamente, senza tenere conto delle altre fonti. Ci si coordina nella quantificazione finale delle quote da richiedere. è quasi una ?cortesia istituzionale?».
Ma ci sono soluzioni possibili? L?Ismu ha elaborato una sua proposta, che presuppone un modello per l?utilizzo delle fonti statistiche oltre ad una maggior collaborazione tra le istituzioni. «A volte», spiega Colasanto, basterebbe ?riciclare? dati non utilizzati, come quelli relativi alle domande di assunzione dei datori di lavoro. Questi dati, se opportunamente valorizzati, spiega, «consentirebbero di ottenere un?ampia messe di informazioni sia di tipo quantitativo che qualitativo sui fabbisogni di lavoro reali a livello locale».
Info: www.ismu.org
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