Giustizia

“Piano carceri”: un fallimento lungo dieci anni

Due lustri dopo la fine dell’esperienza del Commissario straordinario l’indagine della Corte dei Conti accende un faro sulle cause della lentezza nella realizzazione delle opere di ampliamento, di ammodernamento e di manutenzione straordinaria da parte dei ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e Trasporti

di Francesco Dente

La Corte dei conti suona la sveglia sui ritardi nel settore dell’edilizia penitenziaria. Il sovraffollamento carcerario mette a rischio il principio della rieducazione del condannato perché non garantisce spazi e condizioni detentive in linea con le finalità del dettato costituzionale e con le prescrizioni delle convenzioni internazionali. 

L’occasione per lanciare l’allarme è fornita dall’indagine sullo stato di attuazione del “Piano carceri” a dieci anni dalla fine dell’esperienza del Commissario straordinario di governo per l’emergenza carceraria. La relazione, lunga ben 283 pagine, indaga sulle cause della lentezza nella realizzazione delle opere di ampliamento, di ammodernamento e di manutenzione straordinaria da parte dei ministeri della Giustizia e delle Infrastrutture e Trasporti. 

Interventi che non possono essere più rimandati perché l’inadeguatezza delle strutture ha assunto contorni al limite dell’emergenza, specie in Lombardia, Puglia, Campania, Lazio, Veneto e Sicilia. Basti considerare che a fine 2024 erano presenti negli istituti italiani 61.861 detenuti a fronte di una capienza massima di 51.312 posti. 

Storie di ordinaria burocrazia

L’indagine su un decennio di lavori nelle carceri è importante perché consente, al di là delle specifiche difficoltà legate al singolo intervento, di cogliere «profili generali di criticità che vale la pena evidenziare», scrive la Corte dei conti. I giudici, pur sottoponendo a un attento esame tutte le procedure finanziate, provano infatti a chiarire cosa c’è dietro la «diffusa e generalizzata dilatazione dei tempi di realizzazione degli interventi» che, anche quando conclusi, hanno registrato una «sistematica inosservanza dei relativi cronoprogrammi procedurali e finanziari, anche con riferimento alla sola fase del collaudo tecnico-amministrativo». 

Ritardi che hanno determinato un frequente «disallineamento» tra la velocità di attuazione delle opere e la velocità di mutamento delle esigenze detentive degli istituti interessati agli ammodernamenti. Un fenomeno «ampiamente diffuso in tutti gli interventi» ma che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Dap ha portato a conoscenza dei soggetti attuatori «a progettazione già in corso se non in fase conclusiva». Storie di ordinaria burocrazia, insomma. La Corte dei conti, non a caso, si chiede (retoricamente?) se quanto accaduto non sia da imputarsi alla «mancanza del necessario coordinamento o quanto meno della tempestiva comunicazione».

Opere incompiute a causa dei fallimenti di impresa

C’è un secondo profilo generale che emerge accanto al mancato rispetto dei tempi. Le inadempienze contrattuali da parte delle imprese aggiudicatarie, «spesso per difficoltà economiche», che si concludono con la risoluzione dei contratti. Casi ricorrenti che inducono i magistrati contabili a richiamare a una «maggiore attenzione nella definizione dei requisiti generali e speciali di partecipazione alle gare per tale specifico settore, ovvero l’introduzione di adeguate garanzie nella stipulazione dei contratti». 

Anche perché, per la serie piove sul bagnato, i ritardi nell’esecuzione dei lavori programmati finiscono per trasferire il problema del sovraffollamento nelle strutture dove sono temporaneamente spostati i detenuti che scontano la pena nella struttura interessata dai lavori. I trasferimenti fra sedi finiscono col comprimere il principio di territorialità della pena e di «equa distribuzione della pressione detentiva negli istituti penitenziari del territorio». 

Il punto, sottolinea l’indagine, è che dall’audizione dei rappresentanti del ministero della Giustizia è emersa la ricorrente carenza presso gli uffici territoriali «di un numero adeguato di dipendenti dotati di competenze tecniche» in grado di provvedere alle funzioni legate ai procedimenti di gara e di dialogare efficacemente con gli Uffici centrali in ordine a profili di natura prettamente tecnica relativi alle diverse fasi di realizzazione delle opere.

Il pasticcio del riuso delle caserme

Dai colloqui con le amministrazioni del settore penitenziario è emersa anche l’opportunità di predisporre delle linee guida operative che definiscano le caratteristiche generali degli standard minimi che devono avere gli edifici da destinare a carceri. Un suggerimento che mira a «evitare diseconomiche ed infruttuose operazioni di rifunzionalizzazione a fini detentivi di immobili che presentano caratteristiche strutturali e vincoli storico-artistici difficilmente conciliabili con i requisiti di spazi individuali, igienico-sanitari e di luminosità da rispettare nell’allestimento degli spazi detentivi». 

Il caso delle caserme dismesse

È il caso, par di capire, di alcune caserme che si intendeva riadattare. Nel caso della caserma “Nino Bixio” di Casale Monferrato in Piemonte, ad esempio, le carenze strutturali e logistiche hanno reso così difficile rifunzionalizzare la struttura che i vertici dell’Amministrazione penitenziaria nel 2021 hanno rinunciato al progetto e restituito il complesso immobiliare all’Agenzia del Demanio. 

La Corte dei conti, ultima tirata di orecchie, invita a non trascurare l’esigenza della diversificazione dei trattamenti penitenziari e a rispettare dunque in sede di programmazione degli interventi edilizi «il principio dell’individualizzazione della pena che richiede la distinta e corretta e collocazione delle diverse tipologie di detenuti all’interno di una stessa struttura».

In apertura esterno del carcere di San Vittore a Milano – foto di Marco Vacca/Ag.Sintesi

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