Non profit
«Più libertà e meno vincoli». Al Festival di Castrocaro si leva il grido dei professionisti della raccolta fondi. E si apre il dibattito fra gli esperti
di Redazione
Un’etica che ostacola lo sviluppo e mina alle basi il non profit». Non le manda a dire Valerio Melandri, direttore della Fund Raising School presso la facoltà di Economia di Forlì, nel documento intitolato “Libertà di fundraising” che esporrà mercoledì 11 al Festival del Fundraising. In Italia, è la premessa del professore, quel che si permette al profit lo si inibisce al non profit. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: «Un terzo settore che fatica a conquistarsi lo spazio che, pure, meriterebbe».
Si scrive “fundraising” …
Il ragionamento non procede per assiomi. Piuttosto mette in fila, una dopo l’altra, cinque tesi che corrispondono ad altrettanti ostacoli. Prima, la questione retributiva. «I manager del non profit prendono uno stipendio di gran lunga inferiore a quello dei loro colleghi profit», dice Melandri. E questo avviene non, come forse ci si aspetterebbe, per carenza di risorse. «Se si dà una retribuzione adeguata si va sotto scandalo. Come se si usasse impropriamente il denaro». Con che risultato? Il non profit non attrae i talenti che vanno là dove li porta l’euro. Tengono famiglia, è chiaro. Ma questo non può penalizzare il settore: «Il fatto è che si pensa che il bene comune sia altro dall’interesse personale mentre invece devono conciliarsi». Da questa premessa discendono conseguenze molto concrete. L’uso del marketing e la mancanza di un mercato azionario (con annessa l’impossibilità di attrarre investimenti significativi) ad esempio. «Abbiamo contato le campagne tv. Il profit batte il non profit 3mila a 1. Se però guardiamo al Pil, il primo vale il 60% del totale, il terzo settore fa il 2%: il rapporto è 1 a 30, non 1 a 3mila». Non sarà un caso che gli italiani siano in basso nella graduatoria europea delle donazioni e che da noi i professionisti della raccolta siano così pochi (i soci dell’Assif sono 200 su una popolazione di 60 milioni, l’analoga associazione inglese ne raccoglie 5.500 rispetto ai 62 milioni di abitanti)…
…ma si legge “non profit”
Senza promozione, un’azione sarà meno efficace: tutti ne sono consapevoli, eppure al momento di decidere, tentennano. «È sempre la stessa ragione: si ritiene poco appropriato usare risorse non per il progetto ma per azioni di sostegno». Così si racimolano «risorse residuali». E non si pensa in grande. È appunto il quarto ostacolo: la mancanza di una visione di lungo termine. «Se non otteniamo risultati entro dodici mesi, e che risultati, siamo esposti a un fuoco di critiche. Amazon invece può stare anche sei anni senza utili quando lancia un nuovo progetto». Infine il rapporto tra spese generali di una organizzazione e le risorse destinate alla causa. Qui Melandri chiama in causa l’Agenzia per il terzo settore: «Le sue Linee guida che fissano a 30 e 70 l’equilibrio fra spese e progetti sono state devastanti». La riprova? «Abbiamo fatto un’indagine: il 76% degli italiani, prima di donare, chiede quanto di quel che dono va alla causa. Solo il 6% si chiede se il suo contributo avrà un effetto positivo sulla risoluzione del problema». Viceversa, «occorrerebbe iniziare a valutare le performance più dei costi».
Limite o differenza?
Fin qui Melandri. Ma se il non profit gioca in rimessa, di chi è la “responsabilità”? «Molte delle affermazioni di Melandri sono condivisibili», anticipa Andrea Olivero, portavoce del Forum del terzo settore, «tuttavia non ne condivido la premessa». Attenzione a non scambiare la diversità con un limite. Ribatte il portavoce: «L’etica connota profondamente il non profit in senso anche partecipativo e gli permette di riscuotere lo straordinario consenso di cui gode presso l’opinione pubblica». Ci sarebbero così tanti volontari se fosse diverso da quel che è? Probabilmente no, concorda Francesca Zagni, presidente di Assif: «Occorre tener conto che lo sviluppo del terzo settore non è stato istituzionalizzato e che questa spontaneità ha un suo specifico valore». Diversa la prospettiva di un osservatore esterno, Pierluigi Sacco, docente a Venezia, che riferendosi alle Linee guida dell’Agenzia per il terzo settore (che affermano che almeno il 70% dei fondi raccolti deve andare al progetto e il restante 30% rappresenta il massimo dei costi per realizzare l’attività di raccolta fondi) sostiene che «discutere di 30 o 70% porti fuori strada. Primo, perché qualunque indicatore va inserito in un contesto. Secondo, perché si finisce col discutere di minuzie quando invece occorrerebbe occuparsi della capacità progettuale del non profit». Non perdiamoci in questioni interne, insomma, dato che le sfide per il settore sono moltissime, «a cominciare da quella di elaborare modelli di sviluppo socio-economico sostenibili. Per gran parte dell’opinione pubblica, il non profit non è nemmeno un’ipotesi da questo punto di vista».
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