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Poveri giovani d’Italia

Sono sempre più penalizzati: lo rivela una ricerca dell'università Cattolica

di Redazione

Parafrasando il film dei fratelli Koen si potrebbe dire che l’Italia non è un paese per giovani. Se i giovani italiani vengono considerati dei “bamboccioni” a ben guardare non è tutta colpa loro. Il nostro, tra i Paesi occidentali, è quello che investe meno sulle nuove generazioni, quello con la più bassa occupazione giovanile, col sistema previdenziale più iniquo nei loro confronti. Insomma, come spiega Alessandro Rosina, professore di Demografia all’Università Cattolica di Milano, “i giovani italiani sono una risorsa poco utilizzata e valorizzata”.
Una condizione di svantaggio tanto nei confronti delle generazioni precedenti quanto dei coetanei degli altri Paesi. Nell’ambito dell’iniziativa “20 e 30. E’ ora di cambiare? L’Italia delle nuove generazioni”, promossa dal dipartimento di Scienze statistiche e dal Defap della Cattolica, è emerso che nessun altro paese occidentale ha collezionato tanti record negativi riguardo ai giovani e alle loro prerogative.
Nel Bel Paese, infatti, i giovani hanno il minor peso demografico ed elettorale, il solo nel quale gli under 25 siano scesi sotto quota 25% sulla popolazione totale, dove l’incidenza della spesa per protezione sociale sul Pil, al netto della parte destinata alle pensioni, è un terzo in meno rispetto alla media europea. E ancora, siamo il paese con la più bassa scolarizzazione e più bassa occupazione giovanile, dove l’autonomia si raggiunge più tardi che altrove (la metà delle donne arrivano a 30 anni senza ancora essere sposate, e la metà degli uomini arrivano celibi fino a 33 anni), con maggior debito pubblico ereditato dalle generazioni precedenti e con una classe dirigente (in particolare quella politica) con l’età media più elevata. Mettendo assieme tutti questi aspetti, – riflette Rosina – risultiamo complessivamente il paese nel quale i giovani contano meno, dal punto di vista sociale, economico, demografico e politico. Il ritratto è quello di un paese che preferisce difendere i privilegi presenti e le rendite acquisite che investire sul proprio futuro”.
“E tutto ciò – aggiunge – rischia di peggiorare nei prossimi decenni, dato che il loro peso demografico ed elettorale è destinato a deteriorarsi ulteriormente”. Per il professor Rosina questa situazione dovrebbe indurre i giovani a una rivolta generazionale. Che non scoppia, di fatto, perchè, come fa notare nella sua relazione Paolo Balduzzi, ricercatore della Università Cattolica di Milano, “manca una rappresentanza politica degli under 35”.
Questa mancanza è evidente nei partiti e i sindacati. Secondo i dati forniti da Balduzzi, nel 2003 oltre la metà degli iscritti ai sindacati aveva più di 44 anni (età mediana) e l’età media, e nello stesso anno, risultava la più alta in Europa. Inoltre, quasi la metà degli iscritti era costituita da pensionati. Per quanto riguarda i partiti e le istituzioni, in Italia esiste una barriera all’entrata nelle istituzioni che penalizza i giovani, prevista dalla stessa Costituzione con il vincolo dell’elettorato passivo alla Camera fissato a 25 anni e quello al Senato fissato a 40. La stessa Costituzione garantisce una unica rappresentanza sicura, istituendo di fatto delle vere e proprie quote grigie. Tanto per cambiare, questi vincoli non hanno uguali in Europa.
A peggiorare la situazione per gli under 35, fa notare Balduzzi, abbiamo un bicameralismo perfetto “che mette il Senato, la camera grigia per eccellenza, in posizione di veto per tutte le leggi della Repubblica. Peraltro, anche un rilassamento dei limiti, in particolare alla Camera, non è detto che produca i risultati sperati”. Su un totale di 630 deputati, solo uno ha meno di 30 anni e solo 47 meno di 40 (l’8%). Se si considera che l’età minima per entrare al Senato è di 40 anni, ciò significa che “nei due rami del Parlamento gli under 40, cioè il 46% della popolazione italiana, sono meno del 5%”. Se alcune fasce di età sono sottorappresentate di diritto, altre, fa notare il professore, lo sono de facto. “In Italia il 22% della popolazione – spiega – ha tra i 25 e 40 anni: questa fascia di età è costituita da persone che hanno elettorato attivo e passivo alla Camera.
Ciononostante, solo il 7,5% dei deputati ha una età compresa tra i 25 e i 40 anni”. “Per fare politica in Italia – conclude – bisogna semplicemente avere più di 40 anni: quello che al Senato è un vincolo costituzionale, alla Camera diventa un vincolo implicito”. E la situazione non è destinata a migliorare di molto dopo il prossimo appuntamento elettorale. “Il ringiovanimento previsto e sbandierato sembra essere solo di facciata – articola – l’età media dei candidati nel 2008 è più bassa che nel 2006, ma l’età media è molto più alta tra gli eletti che tra gli esclusi. In particolare, l’età media degli eletti nel Pd nel 2008 è di 50 anni, mentre quella degli esclusi è di 43 anni. Quasi identici i dati per il Pdl, 51 anni per gli eletti, 44 anni per gli esclusi”. Qualche progresso si vede, ma l’età dell’elettore mediano in Italia è di circa 48 anni. “Questo significa che, seppure leggermente più giovane, – conclude Balduzzi – anche la nuova Camera non potrà che favorire politiche rivolte a una fascia di popolazione ancora ben lontana dagli under 35”.

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