Parole nuove, ma decisioni vecchie. Così Barack ha tradito le attese Si possono assumere due diversi approcci in merito alla politica estera di Obama. C’è un approccio “realista”, che fa riferimento al manifesto del Partito Democratico del 2008, dal titolo «Rinnovare la promessa americana». È il manifesto che vincola Obama ad un atteggiamento di rispetto nei confronti di interessi che lo sovrastano e contano molto più del singolo candidato. E c’è un approccio “idealista”, che invece assume come premessa le buone intenzioni e la capacità di rinnovamento di Obama. Il celebre discorso del Cairo purtroppo fa parte di questa seconda categoria, poiché non era un reale impegno programmatico futuro, era una distensione del tutto apprezzabile e senza precedenti, dal forte valore simbolico, ma senza immediate conseguenze pratiche.
Prendiamo la questione arabo-israeliana. Il manifesto del Partito Democratico dice: «Il nostro punto di partenza deve sempre essere il nostro rapporto speciale con Israele, basato su interessi e valori condivisi, ed un impegno chiaro e forte per la sicurezza di Israele, il nostro più importante alleato nella regione, e l’unica democrazia stabile». Ci si impegna a perpetuare l’isolamento di Hamas e si afferma che Gerusalemme è e rimarrà sempre capitale israeliana. Gli accenni alle condizioni di vita dei palestinesi e all’occupazione israeliana sono così esigui che aspettarsi qualche cambiamento sulla base del programma firmato da Obama non sarebbe giustificato.
Veniamo all’approccio idealista, contenuto nel discorso tenuto al Cairo. Un discorso che valorizzava la cultura islamica in quanto grande risorsa per la storia dell’umanità intera, che mostrava grande rispetto nei confronti della religione in quanto tale. Ad un anno dal suo insediamento e a sette mesi dal suo discorso, cosa è accaduto?
Ha, almeno a parole, assunto una posizione, insieme al suo segretario di Stato, di totale opposizione a qualsiasi attività di colonizzazione da parte di Israele, e ha adottato la strategia (già di Bush nell’ultimo anno del suo mandato) del “West Bank first”. Ha ribadito più volte la necessità di creare uno Stato palestinese indipendente e in grado di sopravvivere.
E poi? Poi la macchina diplomatica si è semplicemente fermata. Gli Stati Uniti, di fatto, stanno rimanendo immobili mentre Israele si sta convincendo sempre di più di non avere motivi per rinunciare alla sua attività colonizzatrice, si sente sicura, controlla totalmente la Cisgiordania, e potrebbe anche volere una trattativa, ma “senza soluzione”.
Mahmoud Abbas, dal canto suo, ha bisogno di rafforzare i suoi consensi ma se si piegasse a qualche compromesso, la propaganda di Hamas lo affosserebbe. In conclusione, aspetta una soluzione, ma “senza trattativa”.
Insomma, nulla è cambiato dal giorno di quel famoso discorso. E questo fa specie, perché sembra smentire la lucidità di analisi di Obama: se davvero vuole una distensione coi Paesi musulmani, perché non si occupa della questione che più infiamma gli animi e più alimenta l’odio antiamericano nel mondo?
Aspettiamo fiduciosi. Lo teniamo d’occhio. Ma con un occhio realista, e l’altro idealista. Perché una soluzione al conflitto israelo-palestinese ne sancirebbe la consacrazione, giustificherebbe il Nobel guadagnato sulla fiducia, ma soprattutto creerebbe più sicurezza nel mondo. E quindi, anche negli Stati Uniti.
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