Non profit

Quei due fondamentalisti Del mercato

di Redazione

Questo testo è tratto dal blog «Econometica» che Lorenzo Sacconi ha aperto sul sito Vita.it, nella nuova sezione Csr.

G li autori preferiti dello “sciocchezzaio liberale” che ho iniziato a proporre nel mio blog su Vita.it sono – non me ne vogliano – due ottimi economisti italiani, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina (il primo tra i migliori della Bocconi, il secondo – che conosco dai tempi del liceo – ha avuto successo addirittura nella mitica Harvard) che assieme sono autori di due pamphlet – Il liberismo è di sinistra (2007) e La crisi (2008) – uno all’anno, come Vespa!
Vi domanderete come sia possibile che autori di questa levatura (nient’affatto sciocchi) siano protagonisti di uno “sciocchezzaio”. È semplice. Loro hanno un programma ideologico da sostenere, quello del laissez faire come ricetta per ogni problema d’Italia. Come le vestali di un dogma religioso (mercato, concorrenza e “valore per gli azionisti” sopra ogni cosa) non usano argomenti scientifici, la loro tecnica argomentativa è retorica: raccogliere fior da fiore esempi a favore del dogma centrale, non curarsi affatto dei contro-esempi, delle falsificazioni o incongruenze tra un caso e l’altro. Se l’intenzione è ideologica – il che è legittimo per un partito, meno ovvio per due accademici – allora è consentito approfittare (a fin di bene, si capisce) delle debolezze cognitive del gregge che si vuole portare sulla retta via. Insomma gli sciocchi, direi (secondo loro) sono i lettori, e agli sciocchi si può dare in pasto uno “sciocchezzaio” (what else?).

Proprietari a sbafo?
Veniamo al loro libro più attuale, quello sulla crisi finanziaria globale dei nostri giorni. Ecco, per cominciare, una citazione appropriata, a proposito del fattore scatenate della crisi ovvero l’incapacità degli americani poveri di far fronte ai mutui immobiliari concessi loro troppo allegramente:
«Va ricordato che spesso queste case sono state comprate versando un bassissimo anticipo: perderle equivale a perder molto poco, come mostra anche un sito internet in cui si spiega come lasciare una casa semplicemente andandosene. Nel frattempo, però, si è vissuti in una casa gratis o al più pagando alla banca l’affitto sotto forma di mutuo. Spesso si dimentica che la perdita della casa azzera un grosso debito con la banca (che avrebbe dovuto essere restituito pagando il mutuo, dunque non proprio stando in casa gratis, ndr ). Il danno psicologico è forte ma a conti fatti la perdita economica non è così grave» (p.41).
Si osservi che i “nostri” hanno prima magnificato il valore sociale della “finanza facile” americana: «Essere proprietari di casa significa diventare sensibili al problema del crimine, dell’ordine e della pulizia del quartiere, diventare cittadini attenti e non rimanere ai margini» (p. 40). Dobbiamo così concludere che perdere tutto questo è «un danno psicologico forte, ma una perdita economica non grave».
Vi domanderete come si possa essere così insensibili al dramma di tante famiglie povere, e avere una visione così grettamente economicistica del benessere sociale. Che idea di equità abbiamo (forse «Case così belle loro non se la meritavano»)? L’affermazione inoltre è sbagliata dal punto di vista strettamente economico, perché induce a pensare che lasciare che le famiglie povere perdano la casa non sia grave. Invece, se si vuole tamponare la crisi di fiducia tra operatori finanziari, terrorizzati dal rischio di trovarsi “in pancia” titoli spazzatura, si dovrebbe proprio intervenire a garantire ai titolari l’acquisto delle case (o almeno il pagamento dell’affitto a un ente che le compri per conto loro), in modo da assicurare una qualche risalita del valore dei titoli – oggi a valore zero – associati ai mutui, a causa dei quali nessuno più si fida.

Tutta colpa della politica
Ma minimizzare a metà 2008 serviva ancora – oggi farebbe ridere – a difendere il “dogma ideologico”: non è il mercato finanziario ad avere fallito, chi ha sbagliato è la politica. La politica sbaglia quando regola i mercati eccessivamente, ma anche quando ascolta le lobby finanziarie nelle politiche di de-regolazione dei mercati. La politica sbaglia sempre, non è la soluzione del problema, semmai è parte del problema. Dopo qualche aggiustamento, chi ci salverà saranno ancora i mercati finanziari (cfr. p. 50 e 56).
Ora, è vero che la politica sbaglia. Però quelli citati sono errori diversi. Quando sbaglia per eccesso di de-regolazione il problema nasce dal fatto che i meccanismi di scelta collettiva che vengono posti in auge non sono più quelli della politica democratica, ma quelli del mercato, dell’impresa, del rating e della sorveglianza interni al mercato ecc. Perciò – se ci sono – emergono allora i cosiddetti “fallimenti del mercato”. L’errore della politica in tal caso è non capire e non prevenire i probabili “fallimenti del mercato”.
Questa ovvietà è ignorata dai liberisti poiché mette in dubbio il “dogma centrale”: se il mercato fosse lasciato essere quel “mercato perfetto” che sarebbe in se stesso (insomma un sorta di essenza metafisica) allora non fallirebbe affatto (cfr. p. 48). Insomma, è solo perché qualcuno (teoria cospirativa) ci ha messo le mani che il giocattolo si è rotto.

Le imperfezioni necessarie
Non insisterò sull’analogia col dogmatismo degli strenui sostenitori del comunismo di circa un ventennio fa. La verità è invece che il mercato finanziario lasciato a se stesso nel mondo reale è largamente imperfetto e quindi pretendere che esso funzioni sulla base dell’incentivo egoistico del massimo del valore per gli azionisti produce effetti perversi.
Le ragioni di questa “imperfezione” sono molteplici: gli operatori economici hanno conoscenza incompleta, cioè fabbricano e vendono titoli che si comportano in modi per loro stessi imprevedibili negli stati futuri; i compratori ne sanno meno di loro: cioè non sanno cosa comprano. Gli amministratori, i manager (come i capitalisti di cui devono simulare il comportamento secondo il dogma centrale) sono avidi razionali e opportunisti, cioè cercano di guadagnare a tutti i costi dalle stock option, senza prendersi cura degli effetti, se non dello “shareholder value” a breve. La posta in gioco è alta e se ne possono appropriare a condizione che colludano con i loro sorveglianti (agenzie di rating, revisori, certificatori ecc.), il che regolarmente accade, poiché i sorveglianti hanno gli stessi scopi e ideologia dei sorvegliati.

Il liberista “ideologico”
L’errore del liberista è fare del mercato anziché un mezzo che deve servire altri scopi, un “programma ideologico” – cioè sostituire il fine con il “meccanismo”. E poi cercare di costringere la società a funzionare secondo il “meccanismo”, obbligarci a soddisfare certe ipotesi («siate egoisti sennò la macchina non funziona, ma – si badi bene – razionali e perfettamente informati»). Nella realtà tutto ciò genera esiti diversi perché il mondo reale non soddisfa mai le premesse, e quando la gabbia gli viene imposta troppo dogmaticamente produce effetti perversi.
Con un po’ di inventiva istituzionale, sarebbe invece ora di cambiare “dogma centrale”: sostituire ad esempio al criterio dello “shareholder value” come guida di tutte le decisioni di banche e imprese delle economie capitalistiche, quello di “stakeholder value”, cioè il perseguire in modo imparziale, cauto e bilanciato non i “propri interessi – date le stock option” – ma l’interesse di tutti gli stakeholder (azionisti, risparmiatori, lavoratori, clienti, fornitori, comunità circostante, generazioni future ?). Usare l’equilibrio equo tra essi come la stella polare della gestione strategica. Adottare una governance in cui gli amministratori devono salvaguardare la relazione fiduciaria con tutti gli stakeholder – cioè adempiere a doveri di responsabilità sociale – e non solo con chi ha il “controllo”.
Ciò può essere favorito da un regolazione pubblica imparziale, abilitante e non invasiva, e da un’autoregolazione sociale (agenzie di rating e certificazione sociale) non collusiva né accomodante, in quanto le sue organizzazioni (meglio se non profit) non abbiano gli stessi interessi di coloro che controllano, ma rappresentino un bilanciamento tra gli interessi di molteplici stakeholder.

Valore per tutti
L’impresa governata in base al principio del “valore per tutti gli stakeholder”, ad esempio, non remunerando il manager con la variazione di valore delle azioni su cui lui ha un’opzione (e che può manipolare), non venderebbe ai consumatori (clienti) false promesse e al contempo non adotterebbe condotte così rischiose (se è una banca: trascurare di fare il suo compito di analisi del profilo di rischio dei clienti, confidando poi sulla possibilità di rivendere i debiti, come titoli, ad altri risparmiatori) da mettere a rischio i posti di lavoro. Così, in cambio di una redditività più moderata, difenderebbe nella sostanza anche i piccoli investitori.
Vorrei evitare di esser frainteso: c’è oggi un ritorno di fiamma dell’idea che la politica dovrebbe intervenire in economia in modo discrezionale, decidendo chi salvare e chi no, sulla base di scopi politici e interessi di consenso elettorale, costruzione di cordate politico-economiche ecc.. Questa politica sarebbe in effetti una soluzione peggiore del male.

La politica al suo posto
Non si tratta di sostituire il comando dello “shareholder value” con la decisione discrezionale della politica che persegue i propri scopi attraverso l’interferenza negli affari privati, senza rispettare l’autonomia dei soggetti privati. Al contrario, la politica dovrebbe favorire l’affermarsi di nuovi criteri per la presa delle decisioni nella sfera dell’autonomia e autogoverno dei soggetti privati.
Cosa distingue l’idea di “stakeholder value” dall’intervento discrezionale e arbitrario della politica? Anche la politica si impegna in trattative con gli stakeholder, ma il criterio e il fine sono diversi. Mentre la responsabilità sociale cerca di massimizzare il valore aggregato per gli stakeholder, dividendolo equamente, la politica discrezionale segue obiettivi di potere ed elettorali propri.

La parabola di Alitalia
Il caso Alitalia docet. È proprio grazie al criterio del valore per gli stakeholder che possiamo riconoscere la differenza. Quale è il saldo dell’operazione Cai fortemente voluta dal governo e in cui si sono impegnati vari ministri (persino nella creazione della compagine dei soci)?
Si prenda a riferimento l’offerta Air France del marzo scorso. Rispetto a quella offerta abbiamo un costo assai maggiore del debito aziendale messo a carico dei contribuenti, più esuberi e cassa integrazione a danno dei dipendenti, un esito non migliore per l’aeroporto di Malpensa, e quindi un danno per un’economia locale assai importante, inoltre con ogni probabilità i clienti vedranno crescere il prezzo della tratta Milano-Roma causa il venir meno dell’unico concorrente (Air One è stata assorbita in Cai). Gli stakeholder (contribuenti, dipendenti, economie locali e consumatori) hanno più costi e nessun beneficio.
A guadagnare sembrano essere un gruppo di imprenditori non specializzati nell’industria del traffico aereo, che con ogni probabilità entro pochi anni si ritireranno a vantaggio di Air France, senza avere molto investito e massimizzando il valore per se stessi (parleremo allora di shareholder value?), ma soprattutto il governo che ha potuto così mantenere un’improbabile promessa elettorale.
La sostanza è che due soggetti dotati di potere discrezionale (governo e imprenditori) scaricano costi maggiori sugli stakeholder non meno interessati, ma deboli e non controllanti l’impresa. È l’opposto della responsabilità sociale.

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