Minori

Quei rom alla guida dell’auto pirata? Bambini cresciuti senza infanzia che diventeranno uomini “amputati”

Dopo l'uccisione di un'anziana in via Saponaro, a Milano, investita da un’auto guidata da quattro ragazzini tra gli 11 e i 13 anni, ci si chiede: si sarebbe potuto evitare? Cosa si potrebbe fare per l'educazione e l’inclusione di bambini e ragazzi rom che vivono in emergenza abitativa? «Per combattere la povertà educativa è necessario un approccio integrato: scuola, sanità, lavoro». Dialogo con Carlo Stasolla, fondatore e presidente dell’associazione 21 luglio che da anni mappa gli insediamenti rom e sinti nel nostro Paese

di Ilaria Dioguardi

Le magliette dei Pokemon. Le indossavano tre dei quattro bambini tra gli 11 e i 13 anni nel momento in cui, a bordo di un’auto rubata, lunedì 11 agosto hanno investito e ucciso a Milano la 71enne Cecilia De Astis, mentre attraversava sulle strisce pedonali. Indossavano magliette da bambini «ma sono adulti cresciuti troppo in fretta», dice Carlo Stasolla, fondatore e presidente dell’associazione 21 luglio, che dal 2010, con l’attività di advocacy, lavora per favorire il cambiamento di misure politiche che producono esclusione e marginalizzazione su base etnica.

Stasolla, un fatto come quello successo a Milano si sarebbe potuto evitare?

Al di là della responsabilità individuale su cui non entro nel merito, è chiaro che ogni fatto di marginalità, soprattutto per la durata nel tempo (parliamo di famiglie che dagli anni ’90, quindi da 30-40 anni, vivono in quelle condizioni), è un fallimento della società.

Ci spieghi meglio.

È un fallimento della società perché non è riuscita ad avere strumenti, competenze, capacità per includere persone che nomadi non sono, che noi abbiamo reso nomadi attraverso le azioni di sgombero forzato. Quei ragazzini vivono una diffusa situazione di povertà educativa con evasione scolastica, con tutte le caratteristiche tipiche di chi vive la povertà educativa, che non sono solamente i rom. C’è tutta una “enclave” di periferie italiane dove si riscontrano le stesse problematiche che si riscontrano nei campi rom. Molti bambini non vanno a scuola, l’evasione scolastica è molto alta, la microcriminalità è diffusa e le competenze non ci sono. Quei bambini sono figli di rom di origini bosniache. Spesso queste famiglie, essendoci stata una cancellazione della cittadinanza, negli anni 2000, da parte dei governi che poi si sono staccati dalla ex Jugoslavia (parliamo di Bosnia Erzegovina, Montenegro, Serbia, Croazia), sono prive di documenti. Può essere che i genitori di questi ragazzini siano da 40 anni in Italia senza documenti. Quindi, in questa vicenda c’è una responsabilità istituzionale molto forte e grave. Parlo in generale, non entro nell’accaduto perché qui ci sono altre responsabilità che non spetta a me definire.

Per combattere la povertà educativa non basta lavorare solamente sulla scuola o sui minori, è necessario un approccio integrato che prevede il sostegno nella regolarizzazione documentale, l’inclusione abitativa, l’inclusione a livello sanitario e quella lavorativa. Poi è fondamentale la questione scolastica

Carlo Stasolla, fondatore e presidente dell’associazione 21 luglio

A proposito di povertà educativa, cosa si dovrebbe fare per l’educazione e l’inclusione di bambini e ragazzi rom?

Prima di tutto, bisogna specificare che parliamo di bambini e ragazzi rom “che vivono in emergenza abitativa”, in questo caso: non tutti i rom vivono in povertà educativa. La nostra associazione aggiorna costantemente un sito, Il paese dei campi, con la mappatura e le informazioni degli insediamenti abitati da rom e sinti in Italia. Un dato interessante è che solo il 6% dei rom oggi in Italia vive nei campi, quindi dire che “i rom vivono nei campi” è assolutamente falso.

Per favorire l’educazione e l’inclusione di bambini e ragazzi rom che vivono in emergenza abitativa, anzitutto è centrale proprio la questione abitativa, bisogna avviare dei programmi. Il nostro lavoro come associazione è quello di dare supporto alle amministrazioni affinché le persone dal campo passino alla casa. Per combattere la povertà educativa è necessario un approccio integrato che prevede il sostegno e l’inclusione nella regolarizzazione documentale prima di tutto: senza documenti e senza residenza non si può fare nulla. Poi, sono necessari l’inclusione abitativa, l’inclusione a livello sanitario e quella lavorativa. Poi è fondamentale la questione scolastica.

Quindi, sono cinque gli assi importanti attraverso i quali, con un approccio integrato, una famiglia rom in emergenza abitativa può uscire dalla marginalità e includersi. Nei campi, che sono in superamento in tutta quanta l’Italia, lavoriamo su questi cinque assi. Un intervento legato solamente alla questione scolastica è insufficiente: se un bambino frequenta la scuola ma non ha, a casa, un posto dove studiare o dove mangiare un pasto, ogni tentativo è vanificato.

Dei bambini protagonisti della drammatica vicenda nel capoluogo lombardo, cosa vuole dirci?

Che sono bambini diventati adulti troppo in fretta. Sono bambini che si perdono tutta l’infanzia, il gioco, lo studio, il rapporto con i loro coetanei. Crescendo diventeranno degli uomini amputati di tanti valori che non hanno mai potuto conoscere e apprezzare. Hanno un futuro fortemente segnato, non c’è un’ascensione sociale in questi casi. I loro genitori sicuramente hanno vissuto le stesse vicende e, se non si cambia qualcosa, i loro figli faranno lo stesso. È qualcosa che diventa fisiologico in tutte le situazioni di esclusione, di marginalità e di povertà.

Un fatto come quello accaduto a Milano può alimentare facili stereotipi.

Sì, e faccio qualche riflessione. Nel caso specifico, molti come il ministro Matteo Salvini sbagliano perché dove vivono quei ragazzini non è un campo, né abusivo né formale, non si può sgomberare tecnicamente. C’è da fare una grossa riflessione su questi gruppi marginali di famiglie vittime di sgomberi forzati, che sono pochi in Italia, ma da 40 anni vivono in condizioni di grave marginalità e il governo centrale, il più delle volte anche i governi locali, fanno finta di nulla se non in occasione di questi eventi.

Il luogo in cui vivono quei bambini è uno spazio acquistato probabilmente dalle stesse famiglie o da una di loro, è un posto sulla Terra dove si sono collocate con delle roulotte, delle baracche. Chiaramente è una situazione di deprivazione, di povertà educativa molto grave. I ragazzini di cui parliamo sono di origine bosniaca. L’errore di fondo viene da quando negli anni ’90, con la morte di Tito e la disgregazione dell’ex Jugoslavia, molte persone della minoranza rom sono scappate in Italia. Se altrove, come in Germania, in Svezia, in Inghilterra, sono stati riconosciuti come rifugiati politici e hanno fatto dei percorsi di inclusione (tra l’altro nella ex Jugoslavia tutti quanti vivevano nelle case), in Italia ciò non è avvenuto.

E si fa un errore, in cui tra l’altro è caduta anche Debora Serracchiani, che in una dichiarazione ha affermato: «Non tutti i nomadi sono così». L’abbaglio è di considerarli nomadi. Chi è scappato dalla ex Jugoslavia per la guerra non è un nomade, queste famiglie non erano nomadi nel loro Paese, dove vivevano nelle case. In Italia c’è questo abbaglio culturalista per cui si dice che sono nomadi, vanno messi nei campi e dobbiamo creare degli spazi all’aperto per tutelare la loro cultura.

Sicuramente se vivono in campi oggi, a distanza di quasi 40 anni, è perché hanno subito diversi sgomberi. Oggi un gruppo molto marginale di rom vive come queste famiglie, in camper, appoggiandosi in punti nascosti della città. Come dicevo, il 94% vive in casa, altri in campi formali, come quello della Chiesa Rossa (che è un campo adiacente a quello in cui vivono a Milano quei ragazzini), o in campi informali, che sono molto pochi. Oppure, vivono in situazioni di povertà e di esclusione estrema, che è quella in cui vivono le famiglie di questi ragazzini.

Foto di Stefano Sbrulli/associazione 21 luglio (dal sito www.21luglio.org)

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