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quei seimila ebrei armati soltanto di ragione

Dopo la strage della Freedom Flotilla cresce il dissenso

di Redazione

Hanno sottoscritto un appello, Jewish Call for Reason, che sta scuotendo Israele. Non sono dissidenti. Ma hanno capito che Netanyahu porta il Paese al precipizio Stavolta l’appello è di quelli che possono lasciare un segno. Piccolo, forse, ma un segno. A firmarlo, infatti, sono più di seimila personalità e intellettuali europei, di origine prevalentemente ebraica ma non solo, tra i quali nomi assolutamente imprevisti e imprevedibili, come Bernard-Henri Lévy e Alain Finkielkraut. Se per i filosofi francesi Lévy e Finkielkraut, noti soprattutto per la vis polemica delle loro battaglie in difesa di “valori occidentali” e “democrazia”, si tratta di una “prima volta”, non così per l’eurodeputato Daniel Cohn-Bendit, che senza eccedere in estremismi da tempo va chiedendosi quanto la destra israeliana, alcuni gruppi di pressione statunitensi e, in particolare, i sedicenti “amici di Israele” dentro e soprattutto fuori dai confini dello Stato fondato nel 1948, nuocciano alla comprensione, oltre che alla soluzione di un conflitto sempre aperto e che ora, dopo l’attacco a una nave della cosiddetta Freedom Flotilla, rischia di radicalizzarsi in maniera davvero irreversibile.
Eppure, proprio in giorni particolarmente critici, mentre gli attivisti dell’una e dell’altra sponda si contendono la ribalta mediatica, e accuse o giustificazioni ad oltranza tolgono aria e possibilità a un qualsiasi ragionevole dialogo, l’European Jewish Call for Reason (questo il titolo del documento) assume nuovo vigore e riporta all’attualità una questione chiave per l’esistenza stessa di Israele. Un’esistenza che non è minacciata solo “dall’esterno”, come vorrebbero dare a intendere i think tank vicini al primo ministro Netanyahu, ma anche – questo si legge nell’appello – «dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme est», occupazione considerata «un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto Stato».
L’idea che muove i promotori e i firmatari del J-Call è che vada riaffermato il principio di un accordo di pace sulla base del «due popoli, due Stati», per uscire dalla sindrome di accerchiamento e dalla «perenne condizione di guerra civile» in cui versa la regione, e che l’Europa debba assumere un ruolo non vicario nella risoluzione del conflitto. L’appello alla ragione marca dunque una distanza non indifferente, tra gli ebrei europei che ancora si richiamano a principi elementari di convivenza e quella parte di destra israeliana che, in nome di un disegno nazionalista religioso, vede nel possesso della terra biblica a ogni costo la realizzazione di un disegno divino, mirando, pertanto, alla soluzione dell’unico Stato, con i palestinesi a ridotti a minoranza interna che, per quanto cospicua, non potrà mai puntare all’integrale possesso dei diritti.
Come ricordava Mattia Toaldo, in un recente monografico di Limes («Israele senza Palestina», n. 1, 2010), la mappa della Cisgiordania è sempre più segnata da colonie che assomigliano a vere e proprie città. Colonie aumentate in maniera esponenziale dal 1991, quando l’allora ministro per l’Edilizia, Ariel Sharon, dispose l’immediata costruzione di 13mila nuovi alloggi, a fronte dei 20mila costruiti nell’arco dei 22 anni precedenti.
Oltre alla crescita esponenziale degli insediamenti, anche la composizione dei coloni è cambiata: se un tempo, prima degli accordi di Oslo del 1993, che teoricamente dovevano porre un argine agli insediamenti, tra gli occupanti prevaleva la componente laica, ora sono gli ultraortodossi e i nazionalisti religiosi, con il loro fanatismo, a costituire la base dei nuovi insediamenti. Una base che ha trovato voci “forti” tra i partiti della destra che indentificano sempre più il proprio ruolo storico con la tutela degli insediamenti in Cisgiordania. Il progetto prevede una deriva nell’idea del “Grande Israele” e come ebbe a dire Benjamin Netanyahu, considera che «gli ebrei non hanno altro posto dove stare, se non in Israele».
È contro questa logica del rinserramento che il J-Call vorrebbe opporsi con più forza, suscitando dibattito anche all’interno della fortezza-Israele. Il rischio, altrimenti, è quello paventato a suo tempo da Yeshayau Leibowitz, tra i padri nobili di Israele, che alla vigilia della Guerra dei Sei giorni (1967) individuava nella logica della conquista e nella “sacralizzazione” della terra l’equivalente di un’idolatria premoderna e di una corsa verso la disfatta morale. Per farsi capire da tutti, Leibowitz citava un aforisma dell’ebreo viennese Franz Grillparzer secondo il quale l’essere umano è quella strana creatura che rischia di passare «dall’umanità alla bestialità inseguendo il sogno bieco della nazionalità».

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