C i sono tante suggestioni dove mi ci ritrovo, nelle pagine del libro Il pane di ieri di padre Enzo Bianchi, edito per Einaudi. È il racconto di una civiltà che probabilmente non c’è più e che animava le campagne povere del “mio” e suo Monferrato nel primo dopoguerra. Eppure alcuni spunti possono essere ritenuti adeguati all’oggi, secondo il concetto di tradizione. Intanto c’è quel rispetto del cibo che ancor oggi sembra deturpato dalle notizie per cui si continua a gettare via la spesa: almeno un terzo, secondo le statistiche. E poi ci sono le cadenze dell’anno che intorno alla tavola davano un senso di festa. Enzo Bianchi descrive con minuzia di particolari la bogna càuda , il passatempo con cui una compagnia si ritrovava, ma anche la cura dell’orto che diventa un momento di rapporto tra l’uomo e la natura, di crescita d’altro da sé, che si può solo accompagnare.
Sono stato anni fa nel monastero di Bose, oltre il lago di Viverone, tra il Biellese e il Canavese, nel Comune di Magliano. E ricordo il minestrone mangiato insieme, la mostarda fatta con le uve barbera, i ficuzzi e la confettura di rose di Damasco. Tutti prodotti confezionati all’interno della Comunità, che offre ospitalità a chiunque desideri stare accanto a un gruppo di monaci e monache, vivendo secondo la regola di san Benedetto. Quella sera ho intuito ciò che Enzo Bianchi dice dell’amicizia: «Preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva. E condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale» (pag. 36). Di riflessioni semplici come queste ce ne sono tantissime. E tutte risuonano nuove, in un’era dove ogni gesto è bruciato, scontato, consumato. Ma il bello del libro sono le certezze, come nell’incipit: «Mia madre deponeva sul tavolo ogni mattina una grissia del “pane di ieri”, un fiasco di vino, un orciolo di olio e una saliera, tutto ricoperto da un tovagliolo da lei ricamato con la scritta: “L’olio, il pane, il vino e il sale, siano da lezione e da consolazione”». Ma chi ci dice più parole così?
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