Non profit

Russia e Europa, la partita dell’energia che corre lungo la pipeline

di Redazione

Se non si trattasse di due vecchi volponi della politica, l’immagine di Vladimir Putin e Gerhard Schröder che danno il via al gasdotto Nord Stream premendo il tasto di un computer sarebbe potuta anche apparire commovente. Il presidente russo in procinto di ritornare al Cremlino e l’ex cancelliere tedesco che da politico approvò il progetto e da lobbista andò a presiedere il consiglio di amministrazione della società mista che lo costruiva, hanno inaugurato ufficialmente una nuova stagione del trasporto energetico europeo: dopo un’allegra passeggiata dimostrativa nel complesso di Vyborg, il porto baltico della Russia da cui parte la pipeline, si sono fatti riprendere e fotografare mentre davano il là al primo soffio di gas che percorrerà i 1.224 chilometri del condotto adagiato sul fondale del Mar Baltico e spunterà fuori nei pressi di Greifswald, cittadina costiera tedesca a due passi dal confine polacco. In Germania, Nord Stream è più nota come Ostsee-Pipeline e prende il nome da come i tedeschi sono soliti chiamare questo mare, tornato vivere i tempi gloriosi della Lega anseatica, quando era il punto cruciale dei rapporti commerciali del Nord-Est europeo: Ostsee, mare dell’Est. Se tutto filerà liscio, la prima fornitura di gas russa utilizzabile arriverà dalle parti di Greifswald l’8 novembre.
I numeri dell’opera sono rilevanti: con il primo condotto, che entrerà in funzione a giorni, verranno trasportati 27,5 miliardi di metri cubi di gas all’anno e con il secondo, pronto fra un anno, la capacità salirà a 55 miliardi. Gazprom ha già chiuso contratti di fornitura con Danimarca, Olanda, Belgio, Francia, Gran Bretagna, oltre ovviamente che con la Germania, che ha partecipato al progetto della società Nord Stream con il 15,5% detenuto da Wintershall ed E.on Ruhrgas. Il resto è suddiviso tra altri colossi dell’energia: la francese Gdf Suez (9%) e l’olandese Gasunia (9%). La parte del leone spetta a Gazprom, che controlla il tutto con il 51%.

Capricci e velleità
Gli europei hanno fame di energia e i russi hanno interesse a vendergli il loro gas. Ma il progetto Nord Stream, che Mosca vuol replicare sul versante sud con un quasi omonima pipeline che prenderà il nome di South Stream e nella quale è coinvolta anche l’italiana Eni, rappresenta una rivoluzione nel sistema di trasporto energetico del continente, perché permette alla Russia di non dipendere più dai capricci degli attuali Paesi di transito, Ucraina e Bielorussia, e di assicurare rifornimenti certi e a prova di scontri politici.
L’Europa continua ad aggrapparsi alle sue velleità. «Bruxelles persegue una strategia di diversificazione nell’approvvigionamento energetico per allentare la dipendenza dalla Russia», sostiene Claudia Kemfert, direttrice del dipartimento Energia all’Istituto tedesco di ricerca economica (Diw), «ma la quota delle forniture di Gazprom sul mercato europeo, oggi al 25%, è destinata ad aumentare per l’esaurimento dei giacimenti in Norvegia e Olanda». È la stessa opinione di un altro esperto, Stephan Kohler, amministratore delegato dell’Agenzia tedesca per l’energia Dena: «La strategia europea di contenimento della dipendenza dalla Russia c’è, bisognerà vedere se avrà successo. Fra dieci anni la Germania dovrà anche rinunciare al nucleare e non basteranno il gas liquido, il carbone e le rinnovabili a colmare il fabbisogno. Il gas assumerà un’importanza sempre maggiore ma è anche vero che la dipendenza è reciproca: tutti i gasdotti di Mosca viaggiano verso ovest».
Ci sarebbe il progetto Nabucco, un gasdotto alternativo e quasi parallelo a South Stream, che sulla carta potrebbe portare il gas dalle riserve del Caucaso fin nel cuore del Vecchio Continente attraverso Turchia, Balcani, Bulgaria, Romania, Ungheria e Austria. «Ma è un progetto sempre meno realistico. Il condotto dovrebbe passare sotto il Mar Caspio e avrebbe bisogno del permesso dei russi che non approveranno mai un tracciato concorrente. Due gasdotti che concorrono su una rotta quasi identica non sono economicamente convenienti. L’unica possibilità praticabile è un accordo fra Bruxelles e Mosca per una collaborazione attraverso una società mista, nella quale nessuno abbia il coltello dalla parte del manico».
Da parte russa non sembra esserci troppa comprensione e si tende ad andare per le spicce. «Quella del contenimento delle quote russe è una falsa priorità», dice Konstantin Simonov, direttore della Fondazione russa per la sicurezza energetica, «l’Europa deve valutare se avrà approvvigionamento di gas sufficiente per i prossimi dieci anni. E se pensa di poter fare a meno del gas russo, sbaglia i conti. Bruxelles si muove sulla base di un memorandum redatto dal governo lituano, ma i rapporti economici devono fondarsi sui dati della ragione non sui sentimenti e sulle emozioni».

Rubli invece dei carri armati
Affari ma non solo. «La politica estera russa ha subìto negli ultimi cinque anni un processo di economicizzazione molto forte», spiega Stefan Meister, consulente del Centro per l’Europa orientale della Robert Bosch Stiftung, «e soprattutto nei confronti delle ex Repubbliche sovietiche è passata da un approccio ideologico a uno fortemente pragmatico. Sotto Vladimir Putin si sono affermati l’indipendenza energetica e i meccanismi di stimolo e sanzioni utilizzati verso l’esterno per perseguire gli interessi economici e gli obiettivi di politica estera russi». La svolta è avvenuta con lo shock delle rivoluzioni colorate in Ucraina e Georgia, che hanno spiazzato la strategia perseguita da Mosca: «Da allora, la Russia non ha più fornito assistenza alle economie di quegli Stati post sovietici che mostravano problemi di lealtà e ha avviato una politica di infiltrazione dei settori economici strategici per mezzo delle imprese russe». Imprenditori invece che soldati, rubli al posto dei carri armati.
«Prezzi bassi per le forniture di gas e accordi ombra con i capi dei governi hanno rappresentato la base dei rapporti con le ex repubbliche sovietiche fino al 2005», sostiene Jaroslaw Cwiek-Karpovicz, politologo dell’Istituto per gli affari internazionali di Varsavia, «ma dopo lo smacco ucraino la strategia è cambiata e Mosca ha dovuto rimodulare gli strumenti del proprio soft power». Da un lato sono stati messi in campo mezzi più sofisticati: proposte di integrazione economica, come l’ipotesi di un mercato comune fra Russia, Bielorussia, Ucraina e Kazakhstan, che ora Putin vorrebbe estendere a una dimensione euro-asiatica, la fondazione di giornali e tv in lingua inglese per proporre il punto di vista russo a un pubblico più ampio e giovane, la formazione di ong in realtà di stretta osservanza statale, un’attenzione maggiore alle società delle ex repubbliche piuttosto che alle loro élite. Dall’altro, l’abbandono di ogni rapporto preferenziale negli accordi sul gas e l’adozione di prezzi di mercato per i rinnovi contrattuali.
«Ma sarebbe sbagliato pensare che il soft power russo sia indirizzato solo verso le ex repubbliche sovietiche: nell’ottica di una restaurazione dell’influenza perduta», ribatte Andrey Makarychev, politologo dell’università di Novgorod, «il principale obiettivo è l’Occidente. C’è voglia di riconoscimento e legittimazione per un’idea di democrazia costruita all’interno di un sistema di sicurezza collettiva, che non ricalca i canoni classici di quella occidentale». L’intellettuale bosniaco Predrag Matvejevic creò un neologismo per indicare questi nuovi regimi: democratura. La sua legittimazione ora passa anche attraverso i tubi di una pipeline.

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