Psichiatria

Salute mentale, i bisogni reali restano fuori dal nuovo Piano nazionale

Zeppo di dati provenienti dalla letteratura, poco collegato con il mondo reale dei servizi e le sue necessità: così lo psichiatra Roberto Mezzina commenta il documento licenziato dal ministro Schillaci. Al Tavolo mancavano le organizzazioni di familiari e di utenti e non c'è una presa di posizione netta su questioni cruciali come il Tso. Si può fare innovazione restando ancorati a un sistema vetusto? Questa la domanda

di Veronica Rossi

«Un documento incisivo per la promozione di azioni a favore del miglioramento e del trattamento della salute mentale. Un documento strategico e operativo il cui scopo è promuovere interventi efficaci a favore della salute mentale che dovranno essere recepiti e messi in atto dalle Regioni, titolari della organizzazione sanitaria». Così descrivono il nuovo Piano di azione nazionale per la salute mentale 2025-2030 Alberto Siracusano e Giuseppe Nicolò, rispettivamente coordinatore e coordinatore vicario del Tavolo tecnico della salute mentale, che ha curato il documento.

Per Roberto Mezzina, già direttore del Dipartimento di salute mentale di Triese e vicepresidente della World federation for mental health, però il programma è «da un lato irrealizzabile se non per aspetti marginali, dall’altra fuori fase rispetto ai bisogni reali dei cittadini e degli stessi operatori». Secondo lo psichiatra, se da una parte il Piano rappresenta un importante strumento per lo sviluppo della salute mentale, dall’altra presenta diversi punti problematici, in termini di metodo e di merito.

Tanta letteratura, poco mondo reale

Innanzitutto, salta all’occhio la composizione del Tavolo tecnico: mentre quello che ha redatto il precedente documento – risalente al 2013 – aveva al suo interno alcuni dei principali attori dei servizi, comprese le organizzazioni di familiari e utenti, questo, designato dal ministro Schillaci, è composto principalmente da professionisti ed accademici.

Il lavoro prodotto è basato in maniera preponderante sulla letteratura, ma non tiene abbastanza conto delle best practices. «Non si parte da ciò che il sistema necessità di più», continua Mezzina, «servizi accessibili sul territorio, capaci di presa in carico. Si poteva almeno partire da un’analisi di ciò che manca e fissare un obiettivo che uniformi degli standard di funzionamento, magari facendo benchmarking delle migliori esperienze. Una volta stabilito un modello di riferimento nazionale dei Csm (Centri di salute mentale, ndr), che manca dal 1999, si può pensare di completare e migliorare in determinate aree. E iniziare a vedere quale sia il fabbisogno di risorse, ma anche di competenze e quindi di formazione, per ridurre le disuguaglianze tra Regioni e Province. Ma nel Piano si trovano dati di letteratura, non dal mondo reale dei servizi. Per esempio le cosiddette strutture residenziali: c’è stato un documento approvato dal CSS due anni fa – cui ho contribuito – che fissava raccomandazioni per il miglioramento dell’abitare assistito. Non c’è traccia di questo lavoro».

Secondo lo psichiatra, il Piano fa quindi fatica ad ancorarsi alla realtà di una presa in carico della salute mentale, che rimane ancora frammentata e resta in mano alle singole Regioni. Chi gestisce tutto il sistema? Non viene modificata la struttura di base, che rimane affidata a un impianto gerarchico di tipo ospedaliero.

Che il documento sia basato sulla letteratura più che sulla pratica, però, non significa che non contenga elementi positivi e di buon senso «I servizi per la transizione all’età adulta», cita Mezzina, «o per la maternità, sull’esempio inglese. Ma dove sono le risorse per le innovazioni? Se non si mettono, l’unico modo sarà fare qualche protocollo tra servizi esistenti. Non c’è in vista alcun impegno concreto per sostenerne la realizzazione con risorse adeguate». Si tratterebbe, quindi, di un «libro dei sogni», che contrasta col calo dei servizi e delle prestazioni che pur viene dichiarato anche nella premessa e nell’introduzione al documento. «Non si ragiona sulla base di priorità», afferma lo psichiatra, «non c’è accenno al legame tra percorsi di cura, presa in carico e modello di servizio che le realizzi, per questo nella lettera che ho scritto a Quotidiano Sanità ho parlato di “castelli di sabbia”».

Una logica medico-clinca e poco sociale

Dimenticare il territorio e le organizzazioni che lo animano, vuol dire anche perdere il punto di vista sociale, che ha però una grande importanza all’interno dei percorsi di salute mentale. «La logica che sottende il piano è medico-clinica», dice lo psichiatra, «se si eccettua il capitolo sociosanitario. Per esempio, il case manager viene nominato, ma non si comprende come agisca all’interno dell’equipe e in che relazione stia con un approccio collettivo. Si parla di interventi precoci per i giovani, ma non si parte dall’accessibilità e dai tempi reali di risposta dei servizi – e non c’è nessun riferimento ai tempi di attesa».

Anche per quanto riguarda i diritti umani – citati nel testo assieme ai documenti dell’Onu e dell’Oms – il Piano rimane blando e non prende una posizione netta. «Sul tema scottante del Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, ndr) e sulla necessità di linee guida per l’emergenza si rimanda a procedure locali», spiega Mezzina; «per la contenzione, su cui il Governo precedente aveva preso impegni di concreto superamento, ci si riduce al monitoraggio. Per gli psicologi di primo livello nell’assistenza primaria, non c’è un sistema pensato e articolato con i servizi attuali o da realizzare, come le case di comunità».

A trovare posto nel Piano sarebbe invece la crescente cultura del rischio, che si sta diffondendo sempre di più nel discorso legato alla salute mentale, dalle Rems alle carceri, fino all’identificazione dei pazienti a rischio di violenza. «Così la sicurezza degli operatori è tutta risolta in dispositivi di controllo ambientale, come videocamere, allarmi, porte chiuse con codici, che servono a barricare gli operatori senza sviluppare adeguatamente il positivo clima delle strutture o la sicurezza basata sulla relazione», commenta lo psichiatra.

Il Piano fatica a rispondere a chi chiede maggiore coerenza e servizi più integrati, che possano agire in maniera complessa e integrata. «In questo momento il sistema inglese, che è il più sofisticato e specialistico del mondo, approva un piano decennale che radica i servizi nelle comunità locali e parte da questi per costruire una buona architettura di sistema, più accessibile ai cittadini e aperta 24 ore», conclude Mezzina, «In Italia invece la struttura dei servizi resta fondamentalmente ambulatoriale e poco mobile sul territorio, incapace ormai di fare prevenzione. Mi pongo quest’ultima domanda: Si può fare innovazione settoriale quando l’impianto dei servizi è così traballante e sofferente?».

Foto in apertura da Unsplash

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