Non profit

San Pellegrino, l’etichetta con troppa acqua in bocca

L'azienda del gruppo Nestlè ha scelto di non indicarne l'origine bergamasca

di Redazione

«Se la nostra cittadina è in profonda crisi turistica», attacca il vicensindaco, «buona parte della colpa è dell’azienda che non ha valorizzato le nostre terme» Ogni anno un miliardo di bottiglie «San Pellegrino» finisce sulle tavole di oltre 120 Paesi, dall’Europa all’Australia. E l’etichetta con la stella rossa, da oltre mezzo secolo, compare sul grande schermo e nella tivù americana e non solo, dal «Doctor House» a «Il diavolo veste Prada». Sinonimo, dice l’azienda del gruppo svizzero Nestlè, dell’eccellenza del made in Italy.

Il paese protesta
Eppure, chi conosce dove sgorga esattamente l’acqua minerale San Pellegrino? Pochi. Perché, ormai da tempo, il marchio si è quasi sganciato dal territorio, la bergamasca Valle Brembana. Sull’etichetta della bottiglia compare la sede dello stabilimento, San Pellegrino, ma non la provincia. Anzi – ha sostenuto recentemente il consigliere regionale lombardo, bergamasco e leghista Daniele Belotti – l’indicazione della sede di Milano e delle analisi chimiche a Pavia, sono pure un po’ ingannevoli. E da tempo gli amministratori locali vanno proprio lamentando questo. «L’azienda si è ben guardata dal legare il proprio nome alla nostra cittadina», dice il vicesindaco di San Pellegrino, Vittorio Milesi, «ed è ora che recuperi il terreno perso». La risposta della società di acque minerali non si è fatta attendere. Recentemente l’amministratore delegato, Stefano Agostini ha rassicurato Belotti: «Metteremo il nome di Bergamo sull’etichetta».
Ma il paese San Pellegrino si attende di più da un’azienda che da da 111 anni beve acqua che sgorga dalle proprie rocce. Soprattutto ora che è in corso un’operazione di rilancio turistico: si parla di «Terme più belle del mondo», disegnate dall’architetto francese Dominique Perrault (le storiche sono chiuse da tre anni) e hotel di superlusso grazie all’imprenditore, ora anche presidente dell’Atalanta, Antonio Percassi.
«Se oggi la nostra cittadina è in profonda crisi turistica», continua il vicesindaco, «buona colpa ce l’ha proprio l’azienda, che non ha saputo gestire al meglio le sue terme. Ora ci attendiamo che finalmente il marchio sia legato al paese, grazie a un’operazione di marketing. Certo, la città di San Pellegrino da promuovere sulle bottiglie dovrà essere all’altezza della qualità del marchio diffuso nel mondo».

Un po’ di Csr non basta
Ma l’azienda leader in Italia delle bollicine ha solo prelevato acqua, senza tornare nulla in cambio? «Diamo lavoro a oltre 400 persone della valle», risponde il direttore dello stabilimento di imbottigliamento di San Pellegrino, Luigi Ravasio, «e da tre anni contribuiamo a opere del territorio versando 120mila euro nelle casse comunali e aiutando le associazioni (“Poco, sostiene, però, il vicesindaco, “rispetto alla forza economica dell’azienda”). Abbiamo concesso un’area di nostra proprietà per la costruzione di un rondò sulla strada provinciale, diamo gratuitamente l’utilizzo della fonte per le cure idropiniche e da tempo abbiamo tolto i tir dal centro della cittadina». Ma proprio i mezzi pesanti – dallo stabilimento ne partono, in media, una sessantina al giorno – costituiscono forse il maggior impatto negativo sulla valle, peraltro difficilmente eliminabile visto che soluzioni su rotaia sono di là da venire.
E ai sanpellegrinesi? Quanto meno hanno l’accesso gratuito alla fonte storica (senza bollicine) e alla sorgente un tempo imbottigliata come Limpia, entrambe ampiamente sfruttate dalla popolazione. Almeno qui, il km zero funziona.

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