Cultura

Seconda generazione /Scuola: come parlare ai bimbi “cerniera”.

Parte cospicua delle comunità musulmane di seconda e terza generazione, anziché spingere fino alle ultime conseguenze l’integrazione, ha fatto marcia indietro

di Redazione

Gabriella Lessana, insegnante

Qualunque sia lo status giuridico, per loro la definizione è una sola: ?bambini cerniera?: «Perché si trovano a vivere a cavallo di due culture», dice Gabriella Lessana, insegnante in pensione che ha speso la sua carriera alle elementari di via Baroni, quartiere Gratosoglio, una delle zone a più alta densità d?immigrati di Milano e che ora collabora con la fondazione Ismu per preparare gli altri docenti all?insegnamento dell?italiano agli immigrati. Non è un compito facile.

«Ci troviamo di fronte a bambini che devono rispondere a due aspettative diverse e a volte confliggenti», spiega l?insegnante. «Quella della loro famiglia, che desidera un sostanziale rispetto delle tradizioni culturali e sociali d?origine, e quella della scuola, che impone l?adozione di regole differenti, legate alla cultura del Paese ospite». Fino a qualche anno fa, in particolare per i bambini giunti in Italia in seguito a ricongiungimento familiare, le cose non andavano affatto bene. «Si tendeva a inserirli in classi molto inferiori rispetto alla loro età», prosegue. «S?immagini cosa poteva significare per un ometto di 10 anni, che a casa sua in Marocco seguiva 4 fratelli, aiutava il padre nel lavoro e andava a scuola, ritrovarsi come compagni i nostri bambini di 6 anni!».

Una circolare del ministero dell?Istruzione, due anni fa, per fortuna ha imposto d?inserirli comunque in una classe di pari età. Una buona indicazione che però, da sola, non basta a risolvere i problemi.

La combinazione tra il taglio di personale scolastico (in cui sono incappati anche i facilitatori linguistici, che coordinavano appositi laboratori) e il progressivo aumento di alunni di altre nazionalità (solo a Milano sono rappresentati 90 Paesi d?origine) ha reso tutto più difficile. «Quando un bambino straniero viene inserito in classe, in genere l?insegnante si allarma», spiega la Lessana. «Il primo ostacolo è comunicativo: si tratta di bambini che non sanno nemmeno come chiedere di andare in bagno. Dopo poco tempo, però, questo ?italiano della comunicazione? viene acquisito perfettamente. E lì cominciano i guai, perché l?insegnante ritiene che allora il bambino possa cominciare a seguire il programma, mentre l??italiano per studiare? è ancora una meta lontana».

A quel punto, bisogna intraprendere un delicato lavoro d?integrazione: spiegare il significato delle parole più tecniche, semplificare la sintassi, utilizzare la famosa ?Mercatore? ma anche altre cartine geografiche.
Il dialogo con le famiglie, in particolare quelle di religione islamica, non può essere dato per scontato: «A parte esplicite richieste sul regime alimentare delle mense, in genere questi genitori tendono a vedere la scuola come un?istituzione a cui si affidano i figli e con cui non si dialoga. Per questo spesso ignorano gli inviti a partecipare ai colloqui: in realtà, basta spiegare loro come funziona la scuola italiana, e creare occasioni di dialogo, riunioni, appuntamenti. Più docenti e scuola riescono a farsi ponte, a far sì che mamma straniera e italiana comincino a parlarsi all?uscita di scuola, più facile diventa l?integrazione».

Per saperne di più
www.ismu.it

di Stefano Arduini e Benedetta Verrini

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