Non profit

Seconde generazioni Facciamo un patto di qualità

Un intervento del ministro Maurizio Sacconi

di Redazione

È il senso della proposta della cittadinanza a punti: invece che criteri quantitativi introdurre altri parametri qualitativi. È ciò su cui si basa l’Accordo di integrazione introdotto nel decreto Sicurezza del governo. In anteprima l’introduzione del ministro del Lavoro al libro sui giovani stranieri in Italia
I fenomeni accadono senza chiedere il permesso. L’Italia sta cambiando volto a una velocità impressionante: ad oggi sono presenti sul nostro territorio più di 4 milioni di immigrati, di cui ben 800mila minori. Se dunque è impossibile fermare l’immigrazione, è indispensabile governarla.
Specifica attenzione credo vada rivolta alla situazione delle cosiddette seconde generazioni di immigrati di origine straniera che rappresentano ormai una presenza consolidata nel nostro Paese. L’idea di fondo che ha ispirato ed indirizzato questo lavoro sulle seconde generazioni è di incontrare i diretti interessati e sentire dalla loro voce il racconto delle loro storie e dei loro disagi. Credo che questo sia un passo fondamentale per migliorare il dialogo e aiutare la ricomposizione del tessuto sociale. Possono essere, infatti, gli stessi giovani figli di immigrati stranieri ad indicarci, attraverso le loro biografie, le strade di una possibile convivenza all’interno del quadro della nostra identità e storia.

No al modello anglossassone
Guardando alle esperienze straniere di Paesi che hanno vissuto prima di noi il fenomeno migratorio, considero particolarmente pericolosa la tesi di un multiculturalismo indifferente – teorizzato e praticato in Inghilterra e Olanda e spesso evocato in casa nostra – secondo il quale non esiste un punto certo di riferimento del cammino umano ed è inopportuno parlare di verità. Per definizione tutto è uguale. Se il modello anglosassone non mi convince, nemmeno quello francese è libero da forti criticità. Potremmo definirlo dell’assimilazionismo arrogante, in cui uno Stato militante laicista impone allo straniero tutto il proprio orizzonte culturale, obbligandolo a dimenticare se stesso e a vivere la propria tradizione unicamente fuori dal contesto pubblico. Entrambe le impostazioni hanno portato a risultati alquanto discutibili innanzitutto sulle seconde generazioni che non si sono sentite accolte e rispettate. Entrambi i modelli hanno prodotto infatti terribili episodi di violenza come nelle banlieu parigine o nei subburbs londinesi.
È dunque possibile una via italiana all’integrazione? Proporrò a breve un Piano nazionale per l’integrazione nella sicurezza dall’emblematico titolo Identità e Incontro. Esso rappresenta il secondo essenziale pilastro di una politica che sappia tenere insieme legalità e inclusione, completando così il percorso iniziato con il recente decreto Sicurezza.
Il principio di fondo che mi muove risiede nell’evidenza che solo tra uomini vivi può accadere il miracolo dell’incontro e dell’integrazione. Diffido dunque da ogni approccio di tipo categoriale o sociologico e invito tutti a stare sull’esperienza elementare di uomini e donne che sentono bruciare dentro un inestirpabile desiderio di felicità, coscienti che solo nell’incontro con l’altro questo si può compiere. Solo così è possibile entrare in contatto con altre esperienze ed essere in grado di vagliarle, pronti a coglierne anche gli accenti di verità. L’incontro con l’altro può dunque far permanere nella propria posizione in modo ancora più convinto come può far decidere di correggersi o addirittura di cambiare rotta. Per questo, il necessario incontro tra persone presuppone la netta riaffermazione di una nostra identità perché dobbiamo partire da noi e non da un luogo neutro. Questo aiuta un incontro, un confronto, che non deve avere come protagonista principale lo Stato ma soprattutto le persone con la concretezza delle loro esperienze, tradizioni e culture. Gli stessi valori nei quali crediamo non possono infatti essere scollegati dal modo con cui si sono storicamente affermati.

Dare opportunità
Ogni processo di integrazione è lento e faticoso e, in questo senso, soprattutto per questi ragazzi figli di emigranti, ci sono ancora molte problematiche importanti da affrontare. Penso alle condizioni di disagio sociale, economico o abitativo nelle quali molti fra loro sono costretti a vivere; penso al disagio nei processi di costruzione identitaria ed ai fallimenti scolastici; penso alla marginalità, anche occupazionale, ed alle difficoltà di accesso alle opportunità di mobilità socio – economica; penso, infine, ai processi di discriminazione ed alle molte difficoltà incontrate prima di veder riconosciuto il proprio diritto alla cittadinanza. Per proporre percorsi di integrazione efficaci, è richiesto il coinvolgimento di una molteplicità di soggetti, di governo e amministrativi, istituzionali e della società civile.
Certo, il primo luogo dove si gioca buona parte delle chances di integrazione rimane la scuola. È lì che i giovani immigrati entrano in contatto con la nostra cultura e la nostra identità. Per questo è quanto più necessario prevedere corsi di lingua intensivi propedeutici e programmi che sappiano anche valorizzare la loro origine in una visione integrata con la nostra.
L’Italia poi parte da una condizione di vantaggio. Viviamo, infatti, in un Paese che ha un tessuto sociale molto forte: da noi esistono ancora i famosi “cento campanili”, tante piccole realtà, diverse dalle grandi metropoli in cui è più facile che le comunità perdano il senso dello stare insieme, dove incontrarsi è più facile, dove esistono i presupposti per creare un nuovo modello di integrazione.

I provvedimenti in cantiere
Concludo infine accennando ad alcuni provvedimenti che il governo prenderà per rendere operativo il «Piano nazionale di integrazione». Il recente decreto Sicurezza ha introdotto il cosiddetto “Accordo di integrazione”, articolato per crediti, condizione necessaria per ottenere il permesso di soggiorno. La sottoscrizione di questo accordo non potrà essere riducibile a un gesto simbolico ma sarà vincolante per le parti. Le istituzioni dovranno offrire un’effettiva opportunità all’integrazione, garantendo la parità di accesso al lavoro, alla conoscenza e alle prestazioni sociali, nel presupposto di una stabile residenza e del rispetto delle leggi. Gli immigrati sono invece chiamati a tre impegni: l’osservanza delle regole, il rispetto dell’identità nazionale e la conoscenza della lingua. A metà strada tra diritto e dovere si pone il nodo della casa, come elemento imprescindibile della convivenza sociale e di una vita dignitosa.
Se nell'”Accordo di integrazione” sono definiti i requisiti per ottenere il permesso di soggiorno, deve essere stabilito in modo altrettanto chiaro il percorso alla cittadinanza. Si tratta infatti di due livelli complementari ma distinti. Il primo attiene alle condizioni per una convivenza pacifica e tocca i diritti fondamentali della persona mentre il livello della cittadinanza implica una volontà manifesta dell’immigrato di entrare a far parte della comunità nazionale. Il tema della cittadinanza non è pertanto un requisito ma una conquista. Chi parla di diritti politici – elemento esclusivo dello status di cittadinanza – sembra dimenticare come essi spettino a chi si sente parte di una comunità, e tale appartenenza va maturata e deve essere adeguatamente testata. Per questo la soluzione di una sorta di “Cittadinanza a punti” può definire e monitorare il percorso di integrazione di chi vuole diventare italiano, passando da criteri meramente cronologico – quantitativi a requisiti anche di tipo valutativo – qualitativi.
Nella ricorrenza del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia avremo la straordinaria occasione per ribadire la nostra identità di popolo che – al di là degli accadimenti storici – rappresenta il vero collante del Paese. Riprendendo piena coscienza di chi siamo e facendoci ancor meglio conoscere potremo proporre – dopo una prima fase di accoglienza disordinata – una seconda fase nell’ordine e nel confronto per tracciare insieme una nuova stagione di sviluppo umano integrale.

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