Cultura
Social network, quante risate sulla disabilità: «Ma è prepotenza travestita da satira»
Su TikTok spopola un format che trasforma la disabilità in uno scherno virale. Non è più ironia, è abilismo. Chi ride del video non pensa di discriminare, ma intanto interiorizza il messaggio per cui la disabilità è qualcosa di inferiore. Proprio qui si annida il pericolo, perché la battuta del meme virale sarà sdoganata anche in altri contesti. “È solo una battuta”, si dirà: ma la satira attacca il potere, non chi parte già svantaggiato. Questa è prepotenza travestita da intrattenimento. Perché si può ridere di tutto ma non di tutti

c’è una regola non scritta dei social: se riesci a far ridere, sei salvo. L’algoritmo ti premia, i like arrivano, il video vola. TikTok, che di viralità è la patria, ha perfezionato questo meccanismo fino a renderlo carburante quotidiano. Ma che cosa succede quando la risata si costruisce sulla pelle di qualcuno?
Negli ultimi mesi si è diffuso un format preciso: il commerciante che inscena un dialogo con il cliente. Una battuta secca, un prodotto da vendere, la trovata “geniale” di paragonare l’alternativa scadente a una situazione di disabilità.
Un esempio, ma c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Cliente: “Non parcheggiare nel parcheggio disabili, non sei disabile”.
Venditore: “Ma io sono venuto per fare un aperitivo con un gin lemon”.
Risposta: “Allora sì, puoi”.
Ironia che schiaccia
Sembra un gioco, una gag senza conseguenze. In realtà è un trend che poggia su un meccanismo vecchio come il mondo: ridere di chi ha meno potere. L’ironia, in questo caso, non libera né denuncia. Schiaccia.
Per capire perché questo trend è problematico, bisogna nominare il concetto che lo abita: abilismo. L’idea, cioè, che le persone con disabilità siano “meno”, “difettose”, “fuori norma”. Ridurle a punchline non è un’innocua esagerazione: è l’ennesima conferma di uno stereotipo che diventa sfondo culturale, fino a non accorgersene più. Il meccanismo è sottile. L’utente che ride del video non pensa di discriminare. Ma intanto interiorizza il messaggio: la disabilità equivale a qualcosa di inferiore. La legge 104 — che in Italia tutela milioni di persone e i loro caregiver — diventa materia da sberleffo, non strumento di equità. Ed è proprio qui che la risata diventa pericolosa: perché normalizza. Se il meme lo dice, allora è normale. Se il trend funziona, allora la battuta si può replicare anche fuori dai social: al bar, in ufficio, a scuola.
Sembra un gioco, una gag senza conseguenze. In realtà poggia su un meccanismo vecchio come il mondo: ridere di chi ha meno potere. L’ironia, in questo caso, non libera né denuncia. Schiaccia
I dati aiutano a misurare la sproporzione tra la leggerezza della battuta e il peso della realtà. In Italia vivono oltre 3 milioni di persone con disabilità certificata (Istat 2023). Se allarghiamo lo sguardo a chi usufruisce della legge 104 — lavoratori con disabilità, caregiver e familiari — arriviamo a più di 13 milioni di cittadini. Non un dettaglio, non una minoranza invisibile: una parte sostanziale del Paese. Paragonare questa realtà a un gin lemon non è solo cattivo gusto: è un colpo diretto alla legittimità dei diritti. Perché la conseguenza, alla lunga, è che la 104 passi per privilegio, che i parcheggi riservati sembrino favori, che i percorsi di inclusione vengano percepiti come scorciatoie. Secondo il Digital 2024 Report (We Are Social – Meltwater), TikTok in Italia ha oltre 18 milioni di utenti attivi, con una forte concentrazione tra i 16 e i 34 anni: si tratta della generazione che più di tutte dovrebbe interiorizzare il linguaggio dell’inclusione e invece, giorno dopo giorno, viene esposta a contenuti che associano la disabilità a sinonimo di “inferiore”.
La satira, quella vera
Chi produce quei contenuti si difende con l’argomento classico: “Si può ridere di tutto”. Vero, ma incompleto. Perché ridere di tutto non significa ridere di tutti, soprattutto se quel “tutti” porta addosso barriere, discriminazioni, esclusioni quotidiane. Questa non è satira. La satira attacca il potere, non la vulnerabilità. Qui il potere ride di chi già parte svantaggiato. E quando accade, non è comicità: è prepotenza travestita da intrattenimento.
La risata diventa pericolosa perché normalizza. Se il meme lo dice, allora è normale. Se il trend funziona, allora la battuta si può replicare anche fuori dai social: al bar, in ufficio, a scuola
Il problema non è un singolo creator o un paio di video diventati virali. È la cultura che essi producono e che i social amplificano. Una cultura in cui la disabilità resta barzelletta accettabile. Dove la risata scavalca la dignità, e dove diritti costruiti in decenni di battaglie sociali vengono archiviati come “scuse”, “favori”, “regali dello Stato”.
Il rischio è che la leggerezza diventi l’alibi per non affrontare il pregiudizio. Ma se ridere significa spingere qualcuno più in basso, allora non c’è leggerezza: c’è violenza verbale. E il fatto che diventi virale non la rende meno violenta.

I social hanno un potere enorme: quello di modellare la percezione pubblica. Decidere come usarlo è una responsabilità, non un gioco. Un creator, un negoziante, un’azienda che cavalca questi trend non sta “solo” facendo marketing: sta scegliendo da che parte stare. La comicità può e deve esistere. Ma non a scapito dei diritti. Non a scapito della dignità. La legge 104, i parcheggi dedicati, i percorsi di inclusione non sono privilegi: sono strumenti di giustizia sociale. Deriderli significa ridicolizzare milioni di persone e, insieme, i principi stessi di una società civile. In fondo, il punto è semplice: la viralità non può valere più del rispetto.
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