Mondo
Somalia, la tabula rasadell’umanitario
africa off limits Perché le ong sono finite nel mirino dei terroristi
di Redazione
«Una nuova ondata di violenza contro l’umanitario». Così Ocha, l’ufficio di coordinamento degli aiuti di emergenza dell’Onu, ha definito i rapimenti e le uccisioni di operatori delle Nazioni Unite e di organizzazioni non governative avvenuti nelle ultime settimane in Somalia. Un’ondata inedita, per certi versi, quella che si è abbattuta nel contesto della «crisi umanitaria più grave in Africa», come l’ha definita di recente il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-Moon.
I rapimenti e le uccisioni di civili in Somalia non sono una novità (dall’inizio dell’anno il conflitto è costato la vita a 2.136 civili, portando il bilancio a 8.636 morti dallo scoppio della ribellione delle corti islamiche nei primi mesi del 2007). E nemmeno il fatto che gli operatori umanitari occidentali siano diventati un target, in mezzo a un conflitto esacerbato come quello che si combatte su suolo somalo da oltre 18 anni. Ma nelle ultime settimane c’è stato uno scarto: l’ultimo duro colpo è stata l’uccisione, il 6 luglio, del capo della missione Onu per lo sviluppo (Undp) in Somalia, Osman Ali Ahmed. Un somalo, come somali erano quattro dei cinque operatori umanitari rapiti il 30 giugno nei pressi di Mogadiscio, collaboratori dell’organizzazione non governativa italiana Water for life, fondata dal geologo e sacerdote italiano Elio Sommavilla. Un rapimento che, dalle notizie che arrivano dalla Somalia, sembra poco collegato all’attività di sostegno da parte dell’associazione italiana ai progetti di sviluppo del villaggio di Ayuub, vicino a Merka, un villaggio modello con un’amministrazione democratica fondato dalla somala Mana Suldaan. «A Mogadiscio basta viaggiare su un’auto con il logo di un’organizzazione non governativa, com’era il caso dei collaboratori Water for life, per diventare immediatamente un bersaglio», dice dalla Somalia un operatore umanitario che chiede l’anonimato. «Spesso lo scopo è la richiesta di riscatto, e in Somalia un riscatto vale anche 3mila dollari, dipende da chi ti rapisce».
A confermare lo scarto avvenuto nelle ultime settimane è Mario Raffaelli, delegato speciale per la Somalia del governo italiano: «Prima c’erano episodi singoli, ora una campagna contro gli operatori umanitari su larga scala mai vista prima», afferma. Rapimenti e uccisioni sono «collegati al deterioramento della sicurezza e alla degenerazione del tessuto sociale somalo, per cui accadono cose che prima non esistevano», spiega in prima istanza Raffaelli. Poi però ammette: ci sono due date a partire dalle quali l’«ondata contro l’umanitario» si è intensificata. I gueriglieri islamici che si oppongono al governo di transizione somalo hanno cominciato a prendere di mira anche gli operatori umanitari dal primo maggio, giorno del raid condotto dagli Stati Uniti per uccidere un leader delle Corti islamiche, Aden Hashi Ayro, ritenuto da Washington un esponente di Al-Qaeda: gli americani hanno bombardato la palazzina dove stava dormendo a Dusa Mareb, nel centro della Somalia, con un razzo partito da una nave da guerra in navigazione nell’Oceano Indiano.
L’altra data che segna una svolta è il 9 giugno, giorno in cui alcune figure di spicco dell’opposizione somala (il cosiddetto “Gruppo di Asmara”) hanno firmato un accordo a Gibuti che prevede il dispiegamento entro 120 giorni di una “forza internazionale di stabilizzazione” sotto l’egida delle Nazioni Unite, che dovrebbe sostituire l’esercito etiope, intervenuto alla fine del 2006 per sostenere il governo di transizione contro le corti islamiche, e da allora di stanza in Somalia. «Chi vuol impedire che questo negoziato venga implementato ricorre a vari mezzi compreso l’attacco ai cooperanti», afferma Raffaelli. «Nell’ultimo mese più volte il rappresentante speciale delle Nazioni Unite, Ahmedou Abdallah ha dichiarato la volontà di riaprire gli uffici delle Nazioni Unite a Mogadiscio, e quest’intenzione è stata ribadita dal Consiglio di sicurezza».
Era il settembre 2006, pochi mesi prima dell’intervento dell’esercito etiope. Da allora le condizioni di sicurezza si sono sempre più deteriorate, tanto che anche le tre consorelle di suor Leonella sono state costrette a restare a Nairobi, in Kenya, e non sono più riuscite a tornare. Tra poco chiuderà anche Caritas Somalia che, in un momento di relativa tranquillità a maggio 2006, era tornata a operare. Ad Afgooye, la città dove sono rifugiati gli esuli da Mogadiscio, Caritas collaborava con Islamic Relief, un’organizzazione non profit di ispirazione musulmana. L’obiettivo mai come ora sembra raggiunto: fare tabula rasa di chi cerca di tessere il dialogo e una rete sociale nel Paese delle armi e dei traffici illeciti. «Ci sono 12 operatori umanitari sotto sequestro, due o tre ammazzati in questa settimana, ovvio che sia diventato impossibile operare», afferma Raffaelli.
Il 10 luglio l’accordo del cessate il fuoco di Gibuti doveva essere firmato in modo ufficiale in Arabia Saudita, ma l’appuntamento è slittato a data da destinarsi. «Si dovrebbe cercare di allargare il più possibile il coinvolgimento di mediatori come l’Arabia Saudita, che in questo mese ha cercato di ricucire gli strappi fra il gruppo che ha firmato l’accordo e il resto dell’opposizione somala», sostiene Raffaelli. «In un anno la situazione si è così deteriorata sul terreno che solo una visibile trasformazione di questi accordi in qualcosa di tangibile può rovesciare un trend che ha provocato danni enormi». Due milioni di somali vivono di aiuti umanitari, gli sfollati hanno superato il milione e, denuncia Medici senza frontiere, sono migliaia i bambini affetti da malnutrizione grave solo nell’area di Mogadiscio: questo il trend da invertire. Intanto, sempre secondo Msf, oltre 700 somali sono morti in mare nel tentativo di raggiungere le coste dello Yemen e, da qui, un’altra possibile vita.
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