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Sono le “operaie” di campagna l’anima nascosta della Cina

di Redazione

Lasciano i campi e cercano il futuro nelle fabbriche di giocattoli e telefonini di Dongguan. Tante ce la fanno, altre arrotondano la sera nei lap dance bar. È il più bel ritratto del Dragone contemporaneoChi sono le donne che lavorano nelle catene di montaggio in Cina? Che vita fanno, oltre alle tante ore in fabbrica per produrre beni a basso costo di ogni tipo? Quali sono i loro sogni? Da queste domande nasce il libro reportage Operaie di Leslie T. Chang, giornalista americana di origine cinese, vincitrice del Premio Terzani 2011. Chang ha vissuto dieci anni in Cina come corrispondente del Wall Street Journal, finché ha deciso di dedicarsi totalmente al libro. Uscendo e chiacchierando con le giovani operaie, leggendone i diari, Leslie Chang si è immersa nelle loro vite quotidiane e le ha seguite per alcuni anni, con pazienza e curiosità. Il libro racconta le storie di ragazze emigrate dai villaggi del Nord a Dongguan, città industriale del Guangdong, dove la maggioranza degli operai sono donne, immigrate. In Cina 130 milioni di persone hanno abbandonato le campagne per andare a lavorare nelle città, alla ricerca di una vita migliore.
Perché ha deciso di scrivere questo libro?
All’inizio volevo semplicemente osservare il fenomeno delle migrazioni interne in Cina con gli occhi degli stessi migranti. Pian piano mi sono accorta di quanto fosse ricco e complicato questo mondo, che ruota attorno alle fabbriche di scarpe, giocattoli, telefonini etc. I giornalisti si occupano solo di politica ed economia e così, secondo me, si perdono una parte importante della storia cinese. Il Paese sta attraversando una fase di grandissimo cambiamento e, per comprenderlo, la trasformazione delle vite quotidiane delle persone è fondamentale. Solo che bisogna fare lo sforzo di ascoltare, di seguire le singole storie nel tempo.
Cosa ti ha sorpreso di più, durante la sua ricerca?
La velocità con cui le giovani donne cresciute nelle campagne cinesi si adattano alla vita in città. Per esempio, ho incontrato ragazze che nel loro villaggio non erano mai uscite con un uomo e a Dongguan sono andate subito a convivere, senza dirlo ai genitori. Altre che si prostituiscono nei bar karaoke solo perché lo fanno le loro amiche e sono pagate bene. Ho accompagnato Min, una delle donne di cui racconto la storia, nel suo villaggio e ho osservato come si permettesse di criticare continuamente i genitori e i parenti. Solo perché aveva guadagnato dei soldi in città, Min poteva sfidare la tradizione. Sapevo che la Cina stava cambiando rapidamente, ma i dettagli di queste vite mi hanno fatto capire quanto radicale sia la trasformazione. Ma allo stesso tempo le lavoratrici migranti sono ancora molto legate alla tradizione: si sentono in dovere di aiutare i genitori al villaggio, si sposano giovani e fanno figli presto, preferendo ancora i maschi alle femmine. Insomma, nel profondo restano legate agli antichi valori e legami.
Che differenza c’è tra una ragazza americana e una cinese?
Tempo fa avrei detto che il sogno cinese è materialista: avere un buon lavoro, una casa, una macchina, tutto ciò che soddisfa il desiderio di sicurezza in un tempo di grande cambiamento. Al contrario, il sogno americano è individualista e insegue la realizzazione personale. Oggi però mi pare che le due visioni stiano convergendo sempre più. Buona parte dei cinesi ormai ha acquisito una certa sicurezza materiale e dunque ricerca forme più personali di successo e felicità. Conosco molti cinesi che hanno obiettivi diversi dal fare soldi a tutti i costi. Io sono cresciuta negli Stati Uniti e suppongo che il mio sogno di fare la scrittrice fosse il classico sogno americano. I miei genitori erano molto preoccupati di come mi sarei guadagnata da vivere, dato il tipico desiderio cinese di una vita sicura.
Pensa che la Cina possa continuare a crescere a questo ritmo, sfruttando il lavoro dei migranti? O non chiederanno maggiori diritti?
I lavoratori sono sempre più informati ed esigenti, ma credo che il sistema non cambierà molto. Oggi nelle campagne cinesi vivono 600 milioni di persone, un serbatoio di manodopera giovane a basso costo per molti anni ancora. La produttività ed efficienza delle città-fabbrica come Dongguan è estremamente conveniente, per questo il sistema è destinato ad andare avanti. Il punto non è se le persone siano felici di andarsene da casa per lavorare nelle catene di montaggio. È chiaro che non lo sono, ma non hanno alternative migliori.
Nel libro racconta anche la storia della sua famiglia: il fatto di essere figlia di genitori cinesi ha influenzato il suo punto di vista?
Credo che molti americani di origine cinese abbiamo un rapporto complicato con la Cina. Il cinese è la mia lingua madre e da piccola mi sentivo un pesce fuor d’acqua, in America. Per molto tempo ho evitato di scavare nel passato della mia famiglia, poi ho iniziato a leggere libri sulla storia della Cina, sono andata a Hong Kong, Taiwan e in Cina. E alla fine ho scelto di trattare un argomento di cui i miei genitori non sanno nulla, la vita delle donne migranti a Dongguan.

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