«Hope aveva un desiderio: voleva guardare una farfalla volare. Ma aveva una cataratta bilaterale e non riusciva a vedere. È stata operata, e in 24 ore è tornata a vedere. Nakato cadendo da un albero di mango si fè ferita la mano. Fu curata male e quella cura sbagliata portò all’amputazione dell’arto per salvarle la vita. Ma era felice lo stesso. Aveva perso una mano sì, ma aveva guadagnato il futuro». Questi due ricordi sono di storie che arrivano dall’Uganda. Li ha condivisi Massimo Maggio, direttore di Cbm Italia, un’organizzazione internazionale che in Italia e nel mondo è impegnata nella salute, l’educazione, il lavoro e i diritti delle persone con disabilità. Maggio è da poco rientrato da una missione in Uganda dove Cbm lavora in collaborazione con partner locali: dalla capitale Kampala al West Nile, negli ospedali così come nei campi profughi.
Che Paese è oggi l’Uganda?
Una nazione che negli ultimi anni ha vissuto un grande sviluppo. È un paese che sta uscendo, seppur lentamente, da quella che io chiamo la “tempesta del Covid”. Sappiamo bene come gli effetti della pandemia abbiano inciso profondamente sulla vita delle persone. Anche dal punto di vista della crescita del sistema sanitario, l’Uganda ha fatto passi importanti, molto legati agli interventi di organizzazioni come la nostra, che collaborano con i ministeri e le strutture pubbliche. Certamente non parliamo di un Paese uniforme, ci sono aree più bisognose e aree meno bisognose.
È da poco rientrato da una missione nel Paese
Ci torno con regolarità per visionare i nostri progetti. Come l’ospedale ortopedico riabilitativo, altamente specializzato, CoRSU, alle porte di Kampala. Questo ospedale è diventato negli anni un punto di riferimento per la cura e la riabilitazione, soprattutto dei bambini, che rappresentano il 60% dei pazienti, per questo è chiamato anche “l’ospedale dei bambini”. La struttura offre servizi chirurgici e riabilitativi completi: ad oggi sono stati effettuati 7mila interventi. Da quando è stato fondato nel 2009 ha cambiato la vita di oltre 60mila bambini grazie a servizi chirurgici e ha riabilitato oltre 100mila pazienti. Come Cbm abbiamo sostenuto l’ampliamento e il potenziamento del dipartimento oculistico dell’Ospedale Mengo, con la costruzione di nuove sale chirurgiche, sale degenza e persino la prima banca della cornea del paese. Ma abbiamo anche tanti progetti al Nord. Nell’ospedale St. Joseph a Kitgum abbiamo creato una clinica oculistica. Un’altra tappa del viaggio è stata la visita alle iniziative per persone con disabilità. Spesso la disabilità è strettamente legata alla povertà: più sei povero, più diventi disabile, e più vivi una condizione di disabilità, più diventi povero. Queste persone, molte delle quali sono rifugiati da altri paesi, soffrono particolarmente questa condizione. Nel paese sosteniamo l’organizzazione “Albinism Umbrella”, che lavora per e con le persone con albinismo. È un progetto di protezione sociale che guarda alle persone con albinismo in un’ottica di inserimento lavorativo. Con loro abbiamo creato un laboratorio per la produzione di crema solare, indispensabile per le persone con albinismo, e questo progetto prevede il loro inserimento lavorativo, oltre all’integrazione all’interno delle comunità e alla promozione dei loro diritti. È un bel progetto di protezione sociale.







Tappa importante dell’ultima missione è stata la visita al Ruharo Mission Hospital
Il Ruharo Mission Hospital, situato a Mbarara nella parte occidentale dell’Uganda, rappresenta un punto di riferimento per la cura del tumore dell’occhio in questa parte dell’Africa. Qui sosteniamo da tantissimi anni l’unico centro di cura e riabilitazione per i bambini affetti da retinoblastoma, un tumore molto invasivo e invalidante che colpisce soprattutto i bambini fino ai 3-4 anni di età. Il tasso di mortalità dei bambini affetti da retinoblastoma in Italia o nei paesi occidentali è quasi dello 0%, mentre in Africa, nei paesi più poveri, la percentuale si aggira attorno al 35-40%. Questo significa che quattro bambini su dieci non ce la fanno. Ma più precocemente si riconosce la malattia, più la possibilità di salvare la vita del bambino aumenta. Uno degli interventi importanti che stiamo facendo non si limita alla sola salute, ma è più comprensivo. C’è la componente di sensibilizzazione nei villaggi e nelle comunità sul tema del retinoblastoma, dove si insegna alle mamme e alle persone della comunità a prestare attenzione a una macchia bianca nell’occhio del bambino, che potrebbe essere un tumore. Questa “detection” precoce, ovvero il riconoscimento anticipato della malattia, permette ai bambini di arrivare all’ospedale. Al Ruharo Mission Hospital, a differenza di una tipica clinica oculistica, prima si lavora per salvare la vita del bambino, poi per curare l’occhio e infine per garantire la vista. Sembra un passaggio semplice, ma è la grande sfida di questo ospedale. Grazie all’introduzione di una serie di trattamenti combinati (radioterapia, laser terapia, crioterapia, chemioterapia, rimozione chirurgica dell’occhio, utilizzo di protesi) e ad attività di sensibilizzazione sul territorio, oggi, il Ruharo, si prende cura di tanti piccoli pazienti, il 15% proveniente da Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Ruanda, Burundi, Tanzania, Kenya e Somalia. Il progetto supporta anche le famiglie, provenienti dalle aree più remote e rurali, nella degenza in ospedale sostenendo i costi di pasti, spese di trasporto per le tante visite, interventi di consulenza e supporto psicosociale per garantire ai pazienti di seguire fino in fondo il programma di cure che altrimenti, a causa della povertà, sarebbero costretti ad abbandonare. Un’attenzione particolare è rivolta anche agli operatori sanitari della struttura ospedaliera, formati per l’identificazione, la diagnosi, il referral e la gestione dei casi di retinoblastoma.
Quanto tempo restano i bambini in ospedale?
I bambini rimangono per molti mesi in questo ospedale. Ma i bambini, e questa è stata una mia considerazione durante la penultima missione nel Paese, prima di essere giovani pazienti sono appunto bambini e hanno la necessità di vivere l’esperienza del gioco, dello stare insieme, di vivere ciò che dovrebbe vivere chiunque alla loro età. Per questo, abbiamo costruito un’area giochi coperta. Può sembrare strano, ma è estremamente importante per la riabilitazione non solo fisica, ma anche mentale e sociale del bambino. Qui possono giocare insieme, al riparo dal sole e dalla pioggia, ritrovando quella dimensione di bambino che permette anche un migliore recupero fisico. Quando sono tornato dall’Uganda lo scorso anno, ho espresso il desiderio di costruire quest’area giochi. Mi sono rivolto a un mio amico, Umberto Castelli, un diacono, che in pochi mesi mi disse di sì, che mi avrebbe aiutato. Purtroppo, Umberto ci ha lasciati poco dopo a causa di un cancro. Eppure, attorno a questa idea, a questo sogno che lui aveva, si sono mobilitati tutti i familiari, i parenti, gli amici, una grande comunità di solidarietà che ha permesso di raccogliere i fondi per realizzare il progetto. Oggi l’area è intitolata a lui. In questo ospedale vengono visitati 2mila bambini ogni anno.
Cosa ama dell’Uganda?
È difficile capire l’Africa da lontano, perché, come molti dicono, non è un’unica Africa, ma tante Afriche. È difficile spiegarlo. È vero che quando lavori in Africa, una parte di te resta sempre lì, in quei luoghi che sono abbondanti di sole, di terra e di tante altre cose. Sono abbondanti anche di relazioni.
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