Di quanto succede a Gaza, quello che fa più orrore è l’accanimento contro i bambini. Ogni giorno vediamo foto che non dovrebbero poter esistere: bimbi piccoli con ferite gravissime, neonati prematuri in culle di fortuna, piccoli corpi insanguinati in braccio a genitori disperati. «L’obiettivo è disumanizzare, banalizzare. Se si uccidono costantemente bambini durante le distribuzioni di cibo, le prime volte la gente si scandalizza, poi pian piano diventa quasi “accettabile” per l’opinione pubblica. Ci sono stati 890 morti dall’inizio delle distribuzioni», dice Loris De Filippi, infermiere udinese, già presidente di Medici senza frontiere, che fino a giugno ha lavorato con l’Unicef nelle terapie intensive neonatali e pediatriche della Striscia. È uno dei pochi occidentali che possono testimoniare in prima persona quanto succede a Gaza, ma non si fermerà in Italia: tra qualche mese intende tornare in Palestina, per continuare la sua opera di aiuto.

Dalle notizie e immagini che arrivano dalla Striscia di Gaza sembra che i bambini siano al centro del conflitto. È vero?
Rispetto ad altre crisi, in cui i bambini sono risparmiati, qui sembra quasi che siano un obiettivo prioritario. Forse per la configurazione demografica di Gaza – metà della popolazione ha 18 anni o meno –, ma ci sono state azioni molto dure e significative contro i più giovani. Per esempio c’è stato il blocco degli aiuti, soprattutto per quanto riguarda la parte nutrizionale. Nelle ultime settimane ci sono stati più di cento morti per malnutrizione, la maggior parte dei quali sono bambini. Poi ci sono gli attacchi durante le distribuzioni di cibo, di cui i bambini non sono vittime collaterali, ma quasi i protagonisti.
Rispetto ad altre crisi, in cui i bambini sono risparmiati, qua sembra quasi che siano un obiettivo prioritario
In che senso?
Affamati, per istinto vanno nei luoghi delle distribuzioni di cibo per tentare di accaparrarsi quello che possono, così vengono colpiti. È una situazione assolutamente deprecabile. Ci sono molte pressioni internazionali perché ci sia un’apertura, almeno per l’arrivo di aiuti urgenti. Quelli arrivati attraverso la Gaza humanitarian foundation non lo sono. Prima di tutto la configurazione di questa organizzazione è molto discutibile, essendo governativa americana e israeliana. È in pieno supporto delle forze armate israeliane e questo di fatto la esclude dal mondo umanitario come lo conosciamo noi. Quello che non convince, però, è soprattutto il modo in cui distribuiscono il cibo e la sua qualità: gli alimenti non hanno nulla a che fare con la lotta alla malnutrizione. Serve cibo terapeutico. Al di là della presenza di proteine, i nutrienti devono essere somministrati in un certo modo, mancano sondini naso-gastrici e tutti quegli ausili medici che servono per un’alimentazione terapeutica nei bambini, che non potrebbero sopravvivere in altro modo.

L’Unicef cosa fa nella Striscia di Gaza?
Abbiamo molteplici attività, oltre all’aspetto sanitario ci occupiamo anche della potabilizzazione dell’acqua e dell’approvvigionamento idrico, oltre all’educazione e al ripristino di un qualche tipo di sistema scolastico. Io mi sono occupato delle terapie intensive pediatriche e neonatali, dopo la distruzione dei più importanti ospedali. Soprattutto al Nord, non ce n’erano sostanzialmente più che potessero prendere in carico i prematuri. Nella Striscia, però, ci sono 38mila nascite all’anno, c’è grande necessità di avere neonatologie. Col tempo siamo riusciti a strutturare nella zona settentrionale cinque terapie intensive neonatali pienamente funzionanti, del tutto simili alle nostre di una ventina di anni fa. Siamo passati da due a 33 incubatrici funzionanti e questo è un dato importantissimo.
E al Sud?
Al Sud c’erano già alcune risposte, come l’ospedale Nasser o il Gaza european hospital. Due mesi fa quest’ultimo è stato bombardato e il Nasser è stato evacuato. Questo ha comportato una messa in discussione un po’ generale su come dovesse essere fatta la terapia neonatale e pediatrica in al Sud del Paese. C’è ancora da fare un grosso lavoro e questo è un po’ il mio obiettivo quando e se ritornerò a Gaza nei prossimi mesi. I bambini sono la parte più debole di una catena di per sé sfibrata, che si sta spezzando.
Ci sono state anche apparecchiature che le forze armate israeliane non hanno fatto entrare nel Paese?
Sì. In particolare in questi giorni ho organizzato una petizione per 33 ventilatori neonatali che sono stati bloccati in maniera assolutamente arbitraria all’aeroporto di Tel Aviv a febbraio di quest’anno. Finora non abbiamo avuto la possibilità di averli a Gaza, anche se avrebbero salvato la vita di tantissimi bambini e neonati, perché danno un supporto respiratorio importantissimo.

Avete avuto problemi a svolgere le vostre attività?
Tutte le attività delle Ong e della agenzie come l’Unicef sono di fatto limitate e coordinate nei movimenti dall’esercito israeliano. Non c’è la possibilità di girare liberamente all’interno della Striscia di Gaza per verificare quali siano i bisogni. Ogni volta bisogna chiedere, notificare e coordinare gli interventi con l’esercito israeliano. In alcuni casi viene dato il diniego delle operazioni. È uno dei contesti più difficili in assoluto in cui lavorare. Tra l’altro, non ci sono giornalisti internazionali, quindi è veramente molto complicato avere una visione che abbia un po’ di terzietà rispetto a quanto sta succedendo.
Tutte le attività delle Ong e delle agenzie come l’Unicef sono di fatto limitate e coordinate nei movimenti dall’esercito israeliano
Ci sono episodi o persone che le sono rimasti particolarmente impressi?
Ogni giorno, purtroppo, c’è qualche tragedia che riguarda sia i nostri beneficiari che il nostro staff locale. Mi viene in mente una collega che nel giro di due fine settimana ha perso prima il marito e i figli e poi la sua famiglia d’origine, i genitori, il fratello e i cugini. Dopo i primi giorni di comprensibile smarrimento è rientrata in ufficio e si è messa a lavorare per i bambini. Tutti le abbiamo dato supporto, le abbiamo detto che poteva non venire, ma lei ha risposto: «Se sto a casa impazzisco, mi concentro più sul dare che sul piangere e vado avanti». È un grande esempio di resilienza, non so quanti di noi riuscirebbero a sopportare una cosa del genere; lei è tuttora lì, a combattere ogni giorno per far arrivare l’approvvigionamento idrico necessario nelle varie scuole o in altri posti dove sono i bimbi.

Per i bambini che stanno peggio, è possibile cercare cure fuori dalla Striscia?
C’è la possibilità in casi particolarmente gravi dal punto di vista medico, che non trovano cure a Gaza, grazie a un accordo tra vari Paesi e il Governo israeliano. Dall’inizio del conflitto sono uscite 7mila persone – in gran parte bambini e donne – e devo dire che l’Italia ha avuto un ruolo molto importante in questo, accogliendo circa 700 persone.
Qual è l’atteggiamento di Israele verso le organizzazioni che portano aiuto nella Striscia?
Chiunque sia di supporto alla popolazione palestinese, in questo momento, è considerato un fiancheggiatore di Hamas. Ovviamente è un punto di vista molto sbagliato: le organizzazioni che sono lì non hanno contatti di alcun tipo con Hamas, non hanno alcun tipo di rapporti se non con il ministero della Sanità e con altri ministeri di quello che – ricordo – è stato un Governo regolare prima di diventare la minaccia terrorista che Israele dice che sia. Noi viviamo totalmente in terzietà, ci occupiamo esclusivamente di popolazione civile, in particolare di bambini, quindi penso sia molto chiaro. La percezione però è che appoggiamo Hamas, quindi c’è un rapporto difficile con Israele e da parte dei soldati c’è una certa ostilità. A volte aspettiamo ore sotto il sole nei check point in maniera – a nostro modo di vedere – inutile. È evidente che per questo viviamo momenti di frustrazione. Ma dobbiamo mantenere i nervi saldi, non dobbiamo cedere a nessun tipo di provocazione, perché altrimenti ci sarebbero ulteriori perdite di tempo e ritardi nell’aiuto.
Abbiamo avuto notizia anche di bombardamenti vicini a sedi delle Nazioni unite, che hanno infranto le finestre.
Anche a noi è successo, succede costantemente. Ci sono delle esplosioni che alle volte sono ravvicinatissime. La notte dormi sempre con le finestre aperte perché potrebbe esserci un’esplosione molto vicina che rischia di frammentarle. Non è la prima guerra in cui ho lavorato, il problema qui è relativo all’intensità del conflitto e alla distanza geografica particolarmente ridotta. La Striscia è lunga 47 chilometri e non più larga di tre o quattro chilometri, in questo momento ancora meno, perché c’è una riduzione dello spazio in cui muoversi.
Lei intende tornare a Gaza in autunno.
Sì, malgrado sia stata un’esperienza durissima, perché volontari e operatori umanitari non sono in una condizione diversa rispetto ai beneficiari. Viviamo condizioni difficili dal punto di vista alimentare e i bombardamenti si susseguono costantemente. Però ci sentiamo tutti responsabili: soprattutto chi, come me, si è occupato delle terapie intensive sa quanto sia grande il bisogno in questo momento e quanto sia necessario continuare il lavoro fatto sinora. Prima che arrivassimo i bambini prematuri che venivano al mondo sotto la trentaduesima settimana di gestazione morivano tutti; negli ultimi cinque mesi c’è stato un miglioramento importante. Vorremmo lavorare di più con la parte pediatrica, perché durante i bombardamenti moltissimi bimbi hanno politraumi, amputazioni anche molto gravi, hanno necessità di supporto.
Non ha mai paura?
Costantemente. Sarebbe impossibile non averne, perché è un conflitto con esplosioni frequenti, con deflagrazioni e scontri quotidiani. Tutti abbiamo paura, ma bisogna mantenere i nervi saldi, rendersi conto che tutto sommato facciamo il nostro lavoro in un contesto di quel tipo solo per un periodo, mentre le persone che soccorriamo vedono violenze da un ventennio, anche se non importanti come ora. Ci sentiamo in dovere di dare delle risposte, malgrado la paura.
Foto di apertura AP Photo/Abdel Kareem Hana/LaPresse
Foto nell’articolo fornite dall’intervistato
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