Francesco Costabile

I miei film mi hanno scelto

di Marilù Ardillo

Incontro con il regista calabrese che spiega come ha trasposto in pellicola il libro di Luigi Celeste con Sara Loffredi, "Non sarà sempre così" (Piemme) ossia depatologizzando il padre violento del romanzo: «Non volevo correre il rischio di confinare questo film in uno stereotipo». Ma come per il lavoro d'esordio, "Una femmina", tratto dal libro di Lirio Abbate, le storie che poi ha raccontato gli sono andate incontro

Mia madre grida. La sua voce invade il corridoio, sfonda le pareti e l’armadio a sei ante, puntando dritta al mio stomaco.
Siedo da solo sul tappeto accanto al mio letto e ho in mano due pupazzi, i loro occhi vuoti mi osservano. Vai da lei, dicono. Ho cinque anni. Mi accorgo di tremare.
Le urla salgono in alto e poi precipitano in basso mentre fisso la porta della camera dei miei: mio padre è a cavalcioni sul letto e le sue braccia si muovono al ritmo di colpi secchi che sento crepitare sotto le grida. Vedo il braccio di mia madre di fronte al viso, il suo corpo immobilizzato. Grido. Più forte che posso, più forte di lei.
Le aveva rotto il setto nasale. Per una settimana si rifiutò di portarla all’ospedale. Quando lo fece, i medici dissero che il naso si era ricalcificato con una deviazione.
Per tutti, fu l’ennesima caduta dalle scale.

Sono le parole di Luigi Celeste, tratte dal prologo del suo libro, scritto insieme a Sara Loffredi (Edizioni Piemme, 2017) e intitolato Non sarà sempre così, una specie di mantra che Luigi ha fatto suo, un grido di battaglia per replicare a ogni colpo del destino.

Francesco Costabile, regista e sceneggiatore di origini calabresi, ha ricostruito la storia di Luigi Celeste nel suo ultimo film Familia, presentato lo scorso anno all’81° edizione del Festival di Venezia – sezione Orizzonti, dove ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile a Francesco Gheghi, che interpreta Luigi da adulto. Il film ha ricevuto anche otto candidature ai David di Donatello e cinque candidature ai Nastri d’argento. Francesco Di Leva che ha interpretato il padre di Luigi ha vinto un David di Donatello e un Nastro d’argento come miglior attore non protagonista.

Costabile inizia a sentire un forte richiamo verso il cinema fin da bambino, quando si scopre affascinato e incuriosito dalle processioni religiose di paese, dall’incanto della liturgia. È perdutamente invaghito della serie televisiva statunitense Twin Peaks ideata da David Lynch: in quinta elementare ne imita tutti i personaggi. Il primo cortometraggio sperimentale mai distribuito a soli 16 anni, montato con un videoregistratore: si intitola Re inventati. A 20 anni con il cortometraggio La sua gamba vince il Bellaria Film Festival, uno dei più longevi festival italiani dedicati al cinema indipendente.
Si dedica per lungo tempo ai documentari, collabora con Gianni Amelio e firma il suo esordio al cinema nel 2022 con il film Una femmina, liberamente ispirato al libro inchiesta Fimmine ribelli di Lirio Abbate sulle donne vittime di violenza nelle famiglie della ‘Ndrangheta calabrese.
Abbiamo dialogato a Visioni Periferiche, un festival di cinema di periferia che ha animato la città di Bitonto (Bari) nei giorni scorsi.

Francesco Costabile con Lina Siciliano alla presentazione di Una femmina – foto Cecilia Fabiano/LaPresse

Vorrei partire dal titolo del suo film: Familia. Il pater familias nell’antica Roma era il capo famiglia, la persona più anziana di sesso maschile che esercitava potere assoluto su figli, moglie e schiavi. Quando e come ha scelto questa storia? E cosa ha voluto mettere al centro del suo sguardo e di quello degli spettatori?

Questa cosa che dice è molto bella, perché in qualche modo i miei film mi hanno scelto. Anche il primo Una femmina, è un film che è arrivato a me.
Dopo tanti anni di lavoro duro su storie originali che avevo scritto, ad un certo punto è arrivato un film non scritto da me da cui mi sono sentito scelto.
Questo film nasce dal primo, perché quando andavo a presentare Una femmina nelle sale cinematografiche e nei Festival internazionali, sentivo questa grande esigenza, da parte delle donne soprattutto, di discutere su questi argomenti. Avevo compreso che il tema della violenza di genere avesse necessità di essere ancora esplorato, quindi cercavo una storia che mi desse la possibilità di continuare questa ricerca e allargare i confini. Volevo raccontare le vittime, non soltanto le donne ma anche gli uomini, perché Familia in realtà è un film sull’universo maschile, che indaga i fenomeni culturali che fanno emergere determinate situazioni disfunzionali. A un certo punto è arrivato questo libro sulla mia scrivania. Forse questa storia mi ha scelto perché anche io ho avuto un vissuto abbastanza complesso e difficile, anche durante l’infanzia, quando anch’io ho subìto la violenza patriarcale. Anch’io sono stato vittima di una violenza che non è necessariamente fisica, come in questo film dove la violenza è soprattutto psicologica, di cui spesso siamo vittime senza rendercene conto.
Ho lavorato molto con i centri antiviolenza che per questo film mi hanno seguito: oggi si parla molto di violenza assistita, che un bambino subisce nel momento in cui è esposto alla violenza domestica. Sono sicuro che moltissimi di noi sono stati esposti a vari tipi di violenza, quindi credo sia un film che ci tocca un po’ tutti, chi più, chi meno.

Partendo da una storia realmente accaduta, come ha operato una scelta tra gli elementi da mantenere e quelli da trasfigurare? Cosa ha aggiunto e cosa ha tolto?

Quando si fa un film bisogna necessariamente fare una sintesi narrativa. Ho cambiato l’età di Licia, la madre, perché volevo che vi fosse una madre giovane di due adolescenti. Nel libro c’è molta infanzia, io invece l’ho solo sfiorata nei primi 15 minuti.
La grande differenza rispetto al romanzo e alla storia vera sta nell’aver voluto “depatologizzare” la figura psicologica di Franco, il padre. Nel libro emerge come una persona fortemente disturbata con una sindrome psichiatrica mai curata.
Questa è stata una scelta molto dibattuta in fase di sceneggiatura. Ho voluto provare a normalizzare la figura di Franco, perché c’era il rischio che la violenza domestica fosse patologizzata.

La grande differenza rispetto al romanzo e alla storia vera sta nell’aver voluto “depatologizzare” la figura di Franco, il padre. Non volevo correre il rischio di confinare questo film in uno stereotipo

Sappiamo bene che molte persone che compiono gesti estremi sono persone appartenente normali, come un vicino di casa, un parente. Non volevo correre il rischio di confinare questo film in uno stereotipo, è stata una scelta che ho fatto dopo aver parlato a lungo con i centri antiviolenza, perché è troppo semplice pensare che un uomo violento sia immediatamente riconoscibile.
Franco Celeste cresce nel quartiere Secondigliano a Napoli in una famiglia numerosa con un padre violento in un contesto molto difficile. Anche lui è stato un figlio abusato psicologicamente, per questo il film è ciclico, perché mostra come la violenza alimenti altra violenza: come si può uscire da questo vicolo cieco?
Si può, se c’è un’istituzione pronta ad intervenire, se c’è uno Stato, se ci sono supporti psicologici adeguati. 

Guardando il film ho intercettato alcune frasi che hanno tracciato una sorta di mappatura dell’ombra: Ho bisogno di te, Tu non devi avere paura, Non mi piace che piangi, Non è colpa mia. Come è riuscito a tratteggiare l’anima dei personaggi alternando volutamente l’ombra e la luce, l’orrore e la bellezza?

Un momento della proiezione di Familia a Bitonto (Bari) per il Festival Visioni Periferiche. Foto ufficio stampa

Ho avuto la fortuna di lavorare con dei grandissimi attori, con una sensibilità e un’anima particolarmente affine a questi personaggi, quindi abbiamo fatto questo lavoro insieme. Tutti i personaggi di questa storia lavorano su luci e ombre, hanno due facce, anche il protagonista non è solo una vittima, è anche un carnefice. Sono tutti duali.
Ho scelto Francesco Gheghi, il protagonista, proprio perché aveva questa mascolinità rabbiosa ma anche il viso di un bambino dolce, nella sua fisicità incarna le due anime del film. 

Ha dichiarato in altre interviste che il suo processo creativo è dominato dalla confusione e che i personaggi che crea le camminano alle spalle. Cosa significa esattamente? Cosa accade dentro di lei prima e dopo la realizzazione di un film?

Io vivo nella confusione, o meglio nell’indecisione. Finché non termino il film penso sempre di non avere le idee abbastanza chiare su ciò che voglio fare.
Il processo creativo mi mette a dura prova. Una volta finito però sento di volere molto bene ai personaggi, li porto con me.

Lei è un regista indubbiamente attento ai dettagli e agli ambienti, che per lei fanno parte della drammaturgia. Come ha connotato la casa di questa famiglia?

Ho strutturato la casa così com’era la vera casa di Luigi, perché sono stato nella loro vera casa. Ho cercato di riprodurla abbastanza fedelmente, come l’elemento della scala, ma soprattutto un quadro che raffigura un leone legato ad una catena, che mi ha sempre richiamato la figura di Franco, il padre. Per questo ho voluto riproporlo in scenografia.

La sua passione per i tarocchi è entrata a far parte del processo creativo. Ha chiesto ad ogni personaggio di estrarre una carta guida. Ci racconta di più?

È uno studio che ho fatto dalla visione psicologia di Alejandro Jodorowsky, bravissimo regista che ho sempre amato, è lo studio degli archetipi narrativi. È la crescita e il completamento umano nelle varie fasi attraverso lo studio dei tarocchi.
I tarocchi sono un modo per indagare delle dinamiche inconsce che io uso in termini creativi, anche nella fase di scrittura. Quando sono in confusione, mi consulto con i tarocchi e mi lascio guidare. E questa guida è stata applicata anche nella costruzione dei personaggi, e nelle scene più complesse c’era anche una linea suggerita dai tarocchi.

Nella foto di apertura, di Giorgio Amato per il Festival Visioni Periferiche, il regista Francesco Costabile durante l’incontro a Bitonto (Bari).

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