Tonio Vinci

In carcere insegno ai detenuti a raccontarsi attraverso i disegni

di Ilaria Dioguardi

Fumettista e insegnante di fumetto, Tonio Vinci ha passato mesi con i detenuti del carcere di Pescara e di Sulmona. Dopo quest’esperienza, ha scritto "Fumetti per l’evasione", in cui racconta cosa succede quando un autore di fumetti tiene un corso all’interno di un carcere per insegnare ai detenuti a raccontare – e a raccontarsi – attraverso i disegni

«Utilizzo il fumetto per entrare in posti in cui sarebbe altrimenti impossibile entrare e per strappare un sorriso alle persone». Uno di questi luoghi è il carcere. In Fumetti per l’evasione (Momo edizioni), Tonio Vinci racconta la sua esperienza con i detenuti, che sono i protagonisti del libro.

Vinci, come nasce Fumetti per l’evasione?

Un paio di anni fa ho fatto un’esperienza nel carcere di Pescara, durata per circa tre mesi, una volta alla settimana. Subito dopo ho fatto un’altra esperienza di cinque mesi nel carcere di Sulmona, dove la classe era formata da persone più adulte, da 45 anni in su. La mia motivazione era il voler utilizzare il fumetto per entrare in un mondo nel quale altrimenti non sarei mai entrato. Ero certo che, una volta entrato in contatto con questi mondi, avrei imparato molto e sarebbe cambiato il mio modo di vedere le cose. Nel caso di Sulmona, la mia esperienza è stata talmente intensa che ho voluto inserire nel fumetto tutto quello che è accaduto.

Cover di Fumetti per l’evasione di Tonio Vinci (Momo edizioni)

Quindi, i personaggi e i dialoghi presenti nel libro, sono tutti reali?

Sì, tutto quello che racconto è vero, con una grafica e un modo di scrivere personali. Ovviamente “mischiando le carte”, per privacy: alcuni volti assomigliano a quelli delle persone incontrate, ma faccio dire loro cose dette da altri. Tutto quello che faccio dire ai personaggi del fumetto è reale e mi è stato detto in momenti diversi delle mie lezioni, durante i mesi di corso.

Ci faccia qualche esempio.

C’è chi mi ha detto che «in carcere non sei mai solo… Sei sempre con qualcuno, ma non un compagno di cella, non lo puoi vedere ma c’è: in cella sei sempre in compagnia dell’ansia». La loro perenne ansia è dovuta al fatto che fuori lasciano la vita, metà del loro tempo pensano a quello che hanno lasciato fuori, agli affetti, ai figli. Poi c’è chi mi ha raccontato che, quando è entrato in carcere, non sapeva né leggere né scrivere.

Entrare per la prima volta in carcere non è facile da descrivere. Forse la cosa che più si avvicina è la sensazione di avere uno schiaffo fortissimo in volto!

Com’era il clima, durante il corso?

Il fumetto ha aiutato le persone a porsi in maniera dissacrante e gioviale e, come dico nel titolo, ad evadere. I detenuti venivano da me con il piacere di vedermi. MI dicevano: «Ci porti l’aria da fuori». Era un momento di divertimento, anche per me. Sembra che io scherzi, quando dico questa frase, ma io in carcere mi sono sentito a casa. Ero un momento di pausa per i detenuti, ero una sorta di “premio” per loro. A breve li andrò a trovare, era già nei miei programmi e hanno anche chiesto di me ad un collega.

«Entrare per la prima volta in carcere non è facile da descrivere. Forse la cosa che più si avvicina è la sensazione di avere uno schiaffo fortissimo in volto!», scrive a pagina 13 del suo libro.

La prima volta che sono entrato in carcere è stato a Pescara. Avevo paura, ero sicuro che sarebbe stata un’esperienza molto forte. Però fingevo agli altri (e un po’ anche a me stesso), che fosse tutto tranquillo. Quando sono entrato, camminavo, sentivo un forte odore di caserma e mi sono irrigidito come se avessi ricevuto uno schiaffo. Il fatto era che non potevo far vedere che avevo la sensazione di aver ricevuto un forte schiaffo, quindi ho preso questo “colpo” ma continuavo a camminare facendo finta di niente. È stata una sensazione molto intensa, che mi ero già immaginato, ma quando ho sentito lo sbattere dell’enorme portone dietro di me, ho sentito che lì dentro c’era un’altra dimensione, un’altra atmosfera.

Nel libro scrive: «Sono meravigliato dalla loro serietà, dalla loro disciplina e dalla loro concentrazione. Mentre spiego la griglia bonelliana non posso fare a meno di pensare che sono i migliori alunni che abbia mai avuto». Com’è stato insegnare ai detenuti?

Una bellissima esperienza. Non ho mai voluto sapere cosa i miei alunni avessero fatto fuori, i motivi per cui fossero lì dentro. In quei momenti per me erano alunni che stavano cercando di disegnare una testa. Nel momento in cui facevano il corso di fumetto, i miei alunni vivevano un momento che li portava fuori dal carcere. Ho avuto l’impressione che vivessero quest’esperienza nella maniera più piena e seria possibile. Se riesci, in carcere, a stabilire un contatto con una persona, questo contatto diventa molto intenso. Io non ho mai visto la parte brutta del carcere: non ho assistito a tensioni, litigi o violenze. Ho inserito qualcosa nel fumetto perché sappiamo che esiste anche questa parte, ma personalmente ho vissuto solo esperienze positive, di grande umanità. L’obiettivo del mio libro era trasmettere quello che queste persone mi davano: felicità nel disegnare, gioia, sprazzi di dolore.

«Appena fuori i colori mi sembrano molto più intensi. Mi esplodono negli occhi e mi danno una scarica di vita».

Quando uscivo dal carcere, i colori cambiavano completamente. Anche il senso dell’aria cambiava. E io ci passavo poco tempo dentro il carcere (quattro ore a settimana) immagino loro, dopo tanti anni, come possano vedere distorti i colori. In alcuni momenti le persone si incupivano, trasmettevano il dolore che provavano lì dentro, la mancanza dell’aria aperta, degli alberi, della natura. E me lo dicevano, ma “a piccole dosi”, lo capivo attraverso le pieghe della loro quotidianità. Una persona mi diceva continuamente: «Il carcere è un girone dantesco».

Sono meravigliato dalla loro serietà, dalla loro disciplina e dalla loro concentrazione. Mentre spiego la griglia bonelliana non posso fare a meno di pensare che sono i migliori alunni che abbia mai avuto

Una curiosità, i temperini non possono essere usati in carcere. Come temperavate le matite?

A Pescara i temperini non potevano essere usati e i ragazzi temperavano con una specie di carta vetrata (ma non riuscivano a temperare bene e si graffiavano anche un po’). A Sulmona potevano usarli e, dopo l’utilizzo, li riponevano in armadietti chiusi con il lucchetto.

Foto e immagini di Tonio Vinci

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