Don Virginio Colmegna ha compiuto 80 anni il primo agosto e ancora sceglie di stare nel mezzo, sulla frontiera, dove il dolore si sente e si vede: ma non rinuncia mai alla speranza. Nato a Saronno (VA) nel 1945, ha fondato diverse realtà sociali, cooperative e comunità di accoglienza, attivandosi sempre per affermare i diritti di cittadinanza dei più deboli, nella convinzione che «chi è in difficoltà non vada aiutato con l’assistenzialismo, ma con la promozione di diritti, dignità, percorsi di reinserimento sociale e lavorativo». La sua città è Milano, il suo raggio d’azione le periferie, umane e geografiche.
Dal 1993 al 2003 è stato direttore della Caritas Ambrosiana, ha ricevuto l’Ambrogino d’oro del Comune di Milano e il premio Cittadino europeo dell’anno. Dal 2002 è presidente (oggi onorario) della Fondazione Casa della Carità Angelo Abriani, ente voluto dall’allora arcivescovo di Milano, cardinale Carlo Maria Martini, come luogo di accoglienza e ospitalità per persone in difficoltà ma anche come centro di elaborazione culturale, formazione e studio. Dal 2017 presiede la Fondazione Son – Speranza oltre di noi, che promuove un progetto di abitare solidale per persone con disabilità o particolari fragilità. Dal 2020 è presidente dell’associazione Prima la comunità.

80 anni sempre declinati verso l’altro. Sono un traguardo importante: come li ha festeggiati?
È stata un’esplosione di amicizia. Una festa vissuta insieme a tante persone incontrate sulla strada, persone con cui ho condiviso il cammino di fede, persone in ricerca. Tante piccole esperienze che ho seminato nella mia vita si sono riunite sotto il nome di amicizia. Lo ha detto bene Papa Leone nel suo discorso al Giubileo dei Giovani: l’amicizia è un percorso di pace. L’affettività conta, soprattutto in un periodo come questo, in cui i linguaggi onnipotenti e l’individualismo esasperato rischiano di distogliere lo sguardo dalla semplicità e dal gusto dei legami. Del resto, lo dice il Vangelo: “Amatevi come io vi ho amato”.
Ritorniamo alla gratuità come valore economico e stile di vita. Non burocratizziamo tutto, teniamo accesa la fantasia. Se non si inventa più nulla, si perde il fascino della gratuità
don Virginio Colmegna
Ha attraversato diverse stagioni cruciali per la Chiesa e per la società: dal movimento operaio alle nuove povertà fino alle ondate migratorie. Ripercorrere quei momenti aiuta a leggere il presente?
Io ho vissuto il ’68, ho visto sorgere la contestazione, le prime lotte operaie e i picchetti nelle fabbriche, poi la degenerazione nella violenza e gli anni drammatici del terrorismo. Erano periodi difficili ma di grande socialità. Ho vissuto in pienezza il territorio, nelle esperienze di scuola popolare segnate dall’esempio di don Milani. Gli anni alla Bovisa (quartiere della periferia milanese dove è stato parroco, ndr) mi hanno insegnato a immergermi nella società e nelle sue contraddizioni: una palestra dura che ho attraversato mantenendo la fedeltà alla preghiera e alla povertà. Il grande regalo sono stati i miei genitori, che da bambino mi hanno insegnato la dignità della povertà: io, figlio unico di madre operaia e padre invalido, vivevo in un monolocale di un ballatoio ma in casa non sono mai entrato senza “pattine” sui pavimenti lucidati con la cera. Uno stile di vita che non mi ha mai fatto vedere chi vive nella povertà come una persona da assistere, ma sempre come qualcuno da amare e con cui fraternizzare. Negli anni caldi delle contestazioni come nelle esperienze più forti dentro le periferie, mi hanno guidato la gratuità del dare e del ricevere, la felicità dell’inventare e la fantasia della carità. È a questo che dobbiamo tornare.
Viviamo un momento di grande complessità, non dobbiamo fare l’errore di isolare ed emarginare la fragilità
Si è sempre occupato di povertà ed emarginazione: è stato accanto a persone senza dimora, minori in condizioni di disagio, sofferenti psichici, immigrati, profughi, rom. Si è mai sentito inadeguato o fuori posto?
Il senso di inadeguatezza sì, l’ho provato, ma sempre accompagnato dalla voglia di capire e di studiare, partendo dalla concretezza del fare. Errori certamente ne ho fatti: ripensare ai fallimenti è stato importante, mi ha insegnato molto. Come diceva Martini, per credere bisogna far parlare anche il non credente che è in noi. E così ho vissuto la dimensione della preghiera sollecitata dall’incontro con le persone. Dietro alla povertà ci sono volti e nomi. In questo periodo in cui dialogo con la malattia, c’è una memoria in me che è in grado di sfondare la debolezza fragile della mia mente: è la memoria degli affetti, di legami straordinari che non dimentico.

Il cardinale Martini aveva pensato alla Casa della Carità come a un luogo in cui prendersi cura degli ultimi degli ultimi. Chi sono gli ultimi degli ultimi oggi?
Sono quelli dei non luoghi, le persone senza potere, segnate dalle solitudini e dalla precarietà, che non sanno come tirare a campare. Viviamo un momento di grande complessità, non dobbiamo fare l’errore di isolare ed emarginare la fragilità. Fa parte della vita e dello stare insieme. Per superare i sovranismi e i confini, non dobbiamo mai perdere il gusto dell’ospitalità. Ritorniamo alla gratuità come valore economico e stile di vita. È un monito anche per il Terzo settore: non burocratizziamo tutto, teniamo accesa la fantasia. Se non si inventa più nulla, si perde il fascino della gratuità, il dare nel ricevere.
Quando nel giugno 2011 la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Bicocca di Milano le ha conferito la laurea honoris causa in Scienze Pedagogiche, ha tenuto una lectio magistralis su “La pedagogia dello stare nel mezzo”. Che cosa significa?
Stare nel mezzo significa capire la complessità, non avere un linea sicura, un urlo ideologico, ma saper stare dentro alle contraddizioni. Impariamo dalla concretezza del fare, troviamo nuova linfa nell’energia spirituale e culturale e da un grande bisogno di ecologia. Lasciamoci conquistare dal fascino della povertà, non dall’illusione della ricchezza.
II miei genitori mi hanno insegnato la dignità della povertà: non ho mai pensato a chi vive nella povertà come a una persona da assistere, ma sempre come qualcuno da amare e con cui fraternizzare
È stato definito “prete degli ultimi”, “sacerdote di frontiera”, “felice in mezzo ai poveri”. In quale di queste descrizioni si riconosce di più?
Sono un prete della comunità. Questa società ha bisogno non di operatori ma di inventori di gratuità e di relazioni. Bisogna invocare i legami, superare la cultura individualistica per abbracciare un senso di responsabilità collettiva.
Dove si semina oggi la speranza?
Nella capacità di amare e innamorarsi ancora. Nell’amicizia e nella solidarietà che sfonda i muri e apre una breccia universale. Non voltiamoci dall’altra parte di fronte al dolore che attraversa il mondo. Invece di farci contagiare dalla litigiosità, ubriachiamoci di mitezza e di dolcezza. E poi leggere, sognare, scrivere poesie ed essere coraggiosi nel desiderare. Avere voglia di futuro, anche a 80 anni.
Le fotografie sono dell’ufficio stampa della Casa della Carità
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