Non perde mai il sorriso, mentre parla del suo lavoro e delle sue passioni. Don Dario Acquaroli, classe 1988, è cappellano nel carcere di Bergamo da tre anni ed è direttore della comunità educativa Don Lorenzo Milani di Sorisole, nella bergamasca. «Ho iniziato a frequentare il carcere 16 anni fa. Tra qualche mese farò il cappellano solo dei giovani adulti del carcere, che sono sempre di più».
Don Acquaroli, come si è avvicinato al mondo del carcere?
Ho iniziato a frequentare il carcere nel 2009. Accompagnavo l’allora cappellano don Fausto Resmini, figura molto particolare ed importante, tanto che dopo la sua morte il carcere di Bergamo è stato intitolato alla sua memoria. Lo accompagnavo per animare le messe. Questo mondo mi ha sempre interrogato e mi ha molto cambiato anche nella visione della persona e di tutto quello che poi ha riguardato le scelte della mia vita. Sono cappellano da tre anni. Prima ho vissuto il carcere, ma un po’ distante, non avevo un ruolo preciso, non avevo un rapporto costante come ora con le persone dentro. Comunque il mondo del carcere è cambiato moltissimo in questi ultimi anni.
Perché il mondo del carcere, negli ultimi anni, è diverso?
Negli ultimi tre-quattro anni la situazione è cambiata enormemente rispetto a prima. Ci siamo trovati a fare i conti con quello che si vede anche fuori, nella società, ma in maniera amplificata. Tante persone hanno problematiche psicologiche e psichiatriche, nella maggior parte non certificate o legate alle dipendenze: lavorare con loro, accompagnarle è davvero difficile e complesso, richiede un’attenzione molto particolare per noi cappellani. Io credo che questo tempo ci debba anche aiutare a capire che non dobbiamo correre il rischio di dire che il nostro compito è quello di aiutare tutti: cadiamo in un’assistenza che non è educativa, ma rischia di fare più danni che altro.
Non dobbiamo correre il rischio di dire che il nostro compito è quello di aiutare tutti: cadiamo in un’assistenza che non è educativa, ma rischia di fare più danni che altro. Non possiamo permetterci di disperdere le energie, visti i tanti bisogni
Don Dario Acquaroli, cappellano del carcere di Bergamo
Può spiegarci meglio?
Il nostro lavoro è sicuramente quello di stare accanto a tutte le persone che sono presenti all’interno del carcere, dalla persona detenuta a chi ci lavora, di qualsiasi fede sia, accompagnandole. Quando c’è una persona molto povera, è nostro compito poterle offrire ciò di cui ha bisogno. Proprio per le difficoltà e per le problematicità forti che ci sono, l’attenzione particolare è anche quella di non pensare che dobbiamo dare ascolto a tutto quanto ci viene riportato e ci viene richiesto. Le persone ci dicono continuamente di aver bisogno di qualcosa, di non ricevere nessuna visita, di non avere nessuno che si sta occupando di loro.

Se non c’è un lavoro di insieme, di rete con tutte le altre figure presenti all’interno del carcere, si rischia di prendere iniziative individuali quando possono esserci già diverse progettualità aperte che il detenuto non racconta perché ha fretta di poter uscire e poter incontrare. Questo crea solo confusione e disordine all’interno di un posto che è già molto problematico. Oppure, come è successo in altri istituti, i detenuti possono chiedere di chiamare persone fuori e di riportare dei messaggi, in realtà poi c’è dietro altro.
Qual è il vostro principale lavoro di cappellani?
L’attenzione nostra, come cappellani, è quella di accompagnare chiunque all’interno di un carcere ma, ripeto, con un forte lavoro di rete con tutte le altre figure, per fare in modo che non si sprechi quel lavoro che è già piccolissimo, visti i numeri alti che ci sono e visto le poche persone che possono lavorare con i detenuti. Non bisogna correre il rischio di disperdere le energie, dobbiamo fare in modo che quel poco lavoro che possiamo fare possa davvero essere un lavoro educativo all’interno di un carcere. Per fare questo chiunque deve imparare a fare più insieme possibile.
Ogni salita è un esercizio di essenzialità, ogni vetta un punto di vista nuovo, ogni parete un dialogo tra fiducia e paura
Quando una persona va in carcere entra in un luogo che disumanizza, sotto certi punti di vista. Anche solo quel posto è una pena enorme, la visione del tempo, che scorre lentissimo, cambia completamente in un carcere. E le persone hanno fretta, sono alla ricerca spasmodica di una via d’uscita che sia il più veloce possibile ma che a volte complica le cose. Noi dobbiamo far capire loro che devono avere la capacità di rimanere all’interno di quel tempo, accompagnandole verso la consapevolezza di quello che si è chiamati a vivere in un percorso penale, con tutte le fatiche che comporta.
Una persona in carcere inizia a cambiare quando comincia a fermarsi e a respirare, senza essere continuamente alla ricerca di un tempo che deve passare il più velocemente possibile
I cambiamenti si possono vedere quando un detenuto inizia a guardarsi dentro, comincia a fare un percorso di riflessione e di fede su se stesso. Se devo parlare da cappellano, una persona in carcere inizia a cambiare quando comincia a fermarsi e a respirare, senza essere continuamente alla ricerca di un tempo che deve passare il più velocemente possibile.
Lei, quando esce da lì, riesce a fermarsi a respirare?
È fondamentale, per me, fermarmi a respirare, anche perché non faccio solo il cappellano del carcere. Sono anche direttore della comunità Don Milani di Sorisole (Bergamo), che ospita minori, autori di reato, persone senza fissa dimora. La problematicità fa parte della mia vita. Per me è fondamentale la cura di se stessi per potersi prendere cura degli altri. Personalmente la cura è sapere che ci sono persone con cui posso confrontarmi, con cui posso rileggere il mio vissuto personale. Ma ci sono anche momenti e spazi per respirare.
Dove trova i suoi momenti e spazi per respirare?
Io ho la passione grande per la montagna, quando posso ci vado per camminare e respirare. Vado a fare alpinismo, vado ad arrampicare e non è tempo perso, è tempo che mi serve per poter riconnettermi con me stesso. Vado da solo o con amici con cui condivido questa passione. Principalmente vado sulle Prealpi Orobiche bergamasche o in Val Camonica. Quando io sono entrato a far parte del gruppo dei preti del Patronato San Vincenzo, che si occupa di poveri e di ragazzi, uno dei preti anziani mi ha detto di stare attento perché è bello dedicarsi ai poveri, ma si corre il rischio di trasformarsi con loro, non nel senso buono del termine, ma nel senso peggiore. È vero, non bisogna mai dimenticarsi di se stessi. Dobbiamo ritagliarci sia spazi di riflessione, sia spazi di cura di sé.
Salire in montagna e ascoltare la fatica del mio corpo diventa un modo per tornare ad ascoltare davvero anche gli altri. In quota, non cerco risposte: cerco ascolto
Perché riesce a riconnettersi con se stesso in montagna?
La montagna è il luogo dove torno a fare silenzio, a ricordarmi chi sono. Che sia un sentiero, una cresta, una via di arrampicata o una lunga camminata in solitaria, ogni volta che salgo porto con me le storie, i volti, le fatiche che incontro nel mio ministero: i giovani delle comunità, i detenuti del carcere, le persone senza casa. Eppure, in quota, non cerco risposte: cerco ascolto.
Amo andare in montagna anche da solo perché è nel silenzio del passo lento, e nel battito affannato del cuore che ritrovo la voce più vera. Ascoltare la fatica del mio corpo diventa un modo per tornare ad ascoltare davvero anche gli altri. Ogni salita è un esercizio di essenzialità, ogni vetta un punto di vista nuovo, ogni parete un dialogo tra fiducia e paura.
La montagna mi ricorda che non si accompagna nessuno se non si è disposti a camminare davvero accanto, magari legati da una corda, magari nel silenzio
Cosa le insegna la montagna?
Quello che vivo lassù mi insegna molto di ciò che provo a vivere quaggiù, nei luoghi difficili dove il mio essere prete prende forma: lì dove c’è chi ha smarrito la strada o chi non crede più che una cima sia ancora possibile. La montagna mi ricorda che non si accompagna nessuno se non si è disposti a camminare davvero accanto, magari legati da una corda, magari nel silenzio. E allora torno, ogni volta, più leggero e più pieno. Con il cuore un po’ più libero. E con il desiderio rinnovato di essere, anche nella vita degli altri, un segno di speranza e di respiro.
Nella casa circondariale di Bergamo sono presenti 599 detenuti, a fronte di 319 posti regolamentari (al 4 giugno 2025, dati Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Come si vive questa situazione di sovraffollamento?
È davvero difficile e problematica. Il picco è stato, di recente, di 603 detenuti. Il sovraffollamento va di pari passo alla mancanza di personale, sia per quanto riguarda la polizia penitenziaria, sia del personale educativo. Gli educatori dicono che è impossibile dedicarsi a tutti i detenuti, quando hanno a testa circa 150 persone da seguire (nel carcere gli educatori presenti sono quattro, dovrebbero essere sei, ndr); riescono a vedere solo le persone che hanno pene definitive perché devono compilare la sintesi per il piano trattamentale, e le altre non riescono a vederle quanto ci sarebbe bisogno, è molto complicato a queste condizioni fare un percorso di rieducazione.

Molte persone detenute sono seguite dal Servizio per le tossicodipendenze-Sert. Il carcere di Bergamo è una casa circondariale, chi è all’interno e in attesa di giudizio vuol dire che o non ha una casa e si trova in strada, oppure (una percentuale minore) ha fatto reati molto gravi, o sono persone con dipendenze che a casa non ci possono tornare perché le famiglie non vogliono. Nel carcere di Bergamo c’è internamente un Sert, con medici ed infermieri, è come se fosse un reparto in collaborazione con l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo.
Sono molti i giovani adulti attualmente presenti nel carcere di Bergamo?
Ora sono circa 60 i ragazzi dai 18 ai 25 anni presenti in carcere, in aumento per due fattori principali. Una grossa percentuale di loro sono ex minori stranieri non accompagnati, i cui arrivi sono molto aumentati gli scorsi anni, soprattutto a Milano e Bergamo. Non hanno trovato luoghi di accoglienza ed educativi e hanno vissuto di più in strada. La mancanza di accoglienza ha portato a una più facile via verso la criminalità. Il secondo fattore, che sicuramente complica molto il lavoro all’interno del carcere con i giovani adulti, è la conseguenza del decreto Caivano, che ha concesso ai tribunali di poter spostare i ragazzi in misura cautelare, al compimento del diciottesimo anno di età, da un Istituto penale per minori-Ipm all’interno di una casa circondariale o di un carcere per adulti. L’aumento repentino dei detenuti giovani adulti complica tutto.

Perché complica tutto?
Gli Ipm puntano molto su un percorso rieducativo, cosa che all’interno di un carcere per maggiorenni è davvero complicato poter fare. Molte volte i ragazzi che vengono trasferiti all’interno delle carceri per maggiorenni sono quei giovani che portavano problematiche all’interno di un Ipm, quindi, la loro difficile gestione ha spinto la richiesta di trasferimento all’interno di un carcere per maggiorenni. Spesso hanno grandi fragilità psichiche o psichiatriche, oppure fanno uso di sostanze. Rimango convinto che l’azione educativa centrata sulla relazione e su tutti quegli strumenti, quali la scuola, il lavoro e altre attività, possano permettere a questi ragazzi di intraprendere un percorso e di non rimanere dentro questa rete stretta della criminalità che non lascia loro spazio e vie di fuga, e che punta molto sulle loro fragilità e sulle loro problematicità. Tra qualche mese mi dedicherò solo ai giovani adulti del carcere, sarò il loro cappellano. I giovani li incontro molto anche nella comunità Don Milani di Sorisole (Bergamo), che si occupa di penale minorile e di minori stranieri non accompagnati, oltre che di progettualità dei neomaggiorenni verso l’autonomia e di pene alternative al carcere per giovani adulti.
Foto fornite dall’intervistato
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