Adolescenti

No, il rap non è diseducativo: ecco i pedagogisti a ritmo hip hop

di Veronica Rossi

Il progetto "Keep it real - Comunità in cammino", con capofila ÀP– Antimafia Pop Academy ha portato in cinque città italiane laboratori di hip hop per ragazzi, gestiti da altrettanti rapper. I giovani sono stati guidati nella rielaborazione delle loro esperienze, sono cresciuti, hanno imparato a confrontarsi. I ricercatori delle università che seguono l'iniziativa lo confermano: fare hip può aiutare a sviluppare una coscienza critica

Sull’hip hop – e sulla musica rap – i pregiudizi si sprecano. È una cultura machista, che loda chi riesce ad avere più soldi e più donne da esibire; i testi delle canzoni sono pericolosi inni alla violenza e alle sostanze, che traviano chiunque li ascolti.

Ma sono vere queste affermazioni o stiamo facendo un ragionamento al contrario? Non è forse che le rime che i rapper snocciolano sono il riflesso di un malessere sociale e non la sua causa? In effetti, la cultura hip hop è stata una rivoluzione, un prendere la parola collettivo di categorie emarginate, che hanno potuto finalmente avere una voce. Che non ha niente a che vedere con l’esaltazione di sesso, macchine veloci, soldi, armi e droga. Fare rap, al contrario di quanto molti pensano, può avere un importantissimo valore educativo: lo dimostra il progetto “Keep it real – Comunità in cammino”, progetto triennale finanziato da Fondazione Alta Mane Italia, di cui ÀP– Antimafia Pop Academy è promotrice.

L’iniziativa ha lo scopo di sperimentare e studiare l’efficacia dell’hip hop come ambiente di educazione non formale, nei contesti di marginalità sociale di cinque città italiane accomunati da alta densità popolare, alto tasso di povertà e forte presenza di criminalità organizzata. Nello specifico, le attività sono svolte al quartiere Lamaro di Roma, al Corvetto di Milano (in collaborazione con FormAttArt, ne abbiamo parlato qui), al Barca Reno di Bologna (in collaborazione con Caracò), a Ponticelli di Napoli (in collaborazione con Maestri di Strada) e in via Oberdan a Cosenza (in collaborazione con Strade di casa).

Così è nato il progetto

«L’hip hop fa da sempre parte del nostro background culturale», racconta Pasquale Grosso, presidente di ÀP – Antimafia Pop Academy, «un po’ perché si tratta del mondo da cui anche io vengo, un po’ perché è un linguaggio che è diventato comune tra i giovani, anche nei loro ascolti quotidiani; si tratta di una rivoluzione culturale che ha contaminato la società sotto diversi punti di vista – pensiamo solo al fatto che la break dance è approdata alle Olimpiadi – ed è entrata nell’immaginario collettivo».

Il problema non sono i trapper, loro attingono a un immaginario, costruiscono canzoni. Il problema sono la società e gli adulti di riferimento

Pasquale Grosso, presidente di ÀP – Antimafia Pop Academy

Le vicende di cronaca che hanno visto protagonisti i trapper – come accoltellamenti e risse – hanno fatto identificare l’hip hop come un mostro da combattere. «C’era una sovraesposizione mediatica, che raccontava solo un pezzo davvero minoritario di un mondo di cui facciamo parte da una vita. Il problema non sono i trapper, loro attingono a un immaginario, costruiscono canzoni. Il problema sono la società e gli adulti di riferimento», continua Grosso. «Così ho deciso di chiamare le persone che come me lavoravano con il rap come strumento educativo e di confrontarci sulla metodologia che portiamo avanti nei nostri laboratori, che può diventare una disciplina al servizio dei luoghi della formazione». È così che è nata la rete Keep It Real, impegnata a valorizzare l’hip hop come strumento di inclusione e di educazione. Ed è così che è nato anche un percorso di osservazione sull’efficacia di questa metodologia, che vede la partecipazione di un gruppo di docenti e di ricercatori della Sapienza Università di Roma, della Bicocca di Milano, dell’Università della Calabria, dell’Università di Bologna e della Federico II di Napoli.

L’hip hop, una risorsa educativa

«L’hip hop ha una potenzialità educativa già dalla sua origine», racconta Antonio Turano, in arte Dongocò, rapper e psicoterapeuta che conduce i laboratori a Cosenza. «È una cultura che nasce dal riciclo, dal reinventare la storia che si riceve in base alle proprie necessità. Faccio un esempio banale: le basi sono realizzate attraverso una tecnica di composizione che si chiama campionamento, che consiste nel prendere frammenti di musiche vecchie – dei genitori o dei nonni – e reinventarle in una forma nuova, più utile alle esigenze della persona odierna. Poi c’è tutta la parte espressiva: la possibilità di raccontare di sé, che ha una valenza terapeutica perché permette di tirar fuori le proprie esperienze, i propri vissuti. Costringe a fare un lavoro su di sé, contattare il proprio io profondo e fare un pensiero su come ci si sente».

Che la scrittura sia terapeutica e che contribuisca alla risoluzione dei traumi, ormai è cosa nota. Nel rap, però, a questo si aggiunge anche un lavoro sul ritmo, che ha un effetto contenitivo. «Con gli adolescenti c’è la forte tematica del limite e dei confini», dice Turano. «Sapere di dover stare nella misura dei quarti è contenimento; lo stesso che il mondo fuori non è più in grado di dare. Siamo in un tempo in cui non c’è confine alle possibilità, non c’è limite, quindi l’adolescente non riesce a costruire un proprio io contenuto perché è in uno spazio indefinito. Il rapper per poter stare sul beat deve riuscire a sintetizzare il pensiero, per stare nella battuta, quindi si fa anche un’esperienza di fiducia e di appoggio. Diventa un processo di indipendenza, perché quel contenimento viene introiettato, diventa un aspetto emotivo molto prezioso». Quando si balla la break dance o quando si fa freestyle – il rap inventato sul momento – ci si dispone in cerchio: simbolicamente una figura sacra, in cui si è tutti uguali, in cui tutti possono prendere la parola. È una modalità di interazione accogliente.

Con gli adolescenti c’è la forte tematica del limite e dei confini. Sapere di dover stare nella misura dei quarti è contenimento; lo stesso che il mondo fuori non è più in grado di dare

Antonio Turano, in arte Dongocò, rapper e psicoterapeuta

«Dal punto di vista sociologico, osserviamo che l’ambiente del laboratorio rap ha la capacità di generare un processo di rielaborazione e di rinegoziazione dei vissuti e delle esperienze individuali dei ragazzi, anche riconnettendoli a temi collettivi», spiega Matteo Cerasoli, uno dei ricercatori del gruppo di lavoro universitario che sta osservando il progetto. «L’esempio più lampante è quello del Corvetto: all’interno del laboratorio è stata rielaborata la vicenda di Ramy, che a tutti gli effetti era un trauma collettivo».

Uno dei risultati? La coscienza critica

La cultura hip hop va a braccetto con la pedagogia critica: sviluppa la coscienza, lo sguardo consapevole e individuale sul mondo. «Quello che mi sta colpendo di più è la capacità con cui i ragazzi riescono a sviluppare un confronto tra pari», dice Cerasoli. «Uno dei feedback più belli è quello che abbiamo ricevuto da un ragazzo di una classe in cui si è sperimentato questo approccio per parlare di sostenibilità. Ci ha detto: “Di questo tema ci hanno parlato tante volte, soprattutto con lezioni frontali; ma in questi anni non abbiamo mai effettivamente ragionato e discusso così tanto sulla sostenibilità come quando abbiamo dovuto decidere tutti insieme come scrivere una barra (unità minima del testo rap, ndr) o come fare una rima”».

I laboratori stimolano delle riflessioni che portano a un’importante crescita interiore dei ragazzi. Scrivere e rappare autenticamente è questo: guardarsi dentro e tirare fuori i propri vissuti, le proprie emozioni. «Osserviamo storie speciali di cambiamento», conclude Grosso, «come quella di un ragazzo che è arrivato attingendo nei suoi testi a tutto quell’immaginario machista e quel linguaggio che noi lavoriamo per decostruire, anche se non censuriamo nulla. Poi ha avuto un lutto molto importante, la perdita di un genitore, un dolore molto grande su cui abbiamo lavorato anche assieme. Adesso è maggiormente capace di mettersi in gioco, di stare con gli altri: così sono nate nuove canzoni. Una di queste ci ha fatto commuovere perché riguardava proprio la sua perdita: tutti gli altri ragazzi l’hanno supportato e si sono messi a disposizione per aiutarlo».

Immagini nell’articolo fornite da ÀP– Antimafia Pop Academy

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