Tossicodipendenza

Rogoredo, il binario delle persone-spettro

di Anna Spena

Il boschetto, una delle più grandi piazze di spaccio del nord Italia, è stato “bonificato”. Ma la situazione è la stessa e lo smercio si è spostato di poche decine di metri. E tanti corpi martoriati si muovono in cerca disperata di una dose. Diario di una sera trascorsa con i volontari del team Rogoredo

Sono le otto di sera e la luce non si arrende nella quasi estate milanese di un mercoledì qualunque. Il chiarore disegna le sagome delle figure che si vedono arrivare in lontananza dalla stazione di Milano Rogoredo: è l’esercito degli scarti. Con i loro corpi prosciugati, sporchi, sudati. E le vene gonfie, quelle del collo, dell’inguine, nell’incavo che unisce il braccio e l’avambraccio. Con i loro occhi spalancati, che guardano senza vedere e la bocca affollata di parole che non sanno arrivare chiare. «Non prendermi la faccia. Non mettere su tiktok. No, la faccia no. Nella foto la faccia». La lingua è impastata, le labbra secche. Non bevono acqua: i soldi che elemosinano servono per comprare una dose. E così quando i volontari del team Rogoredo allungano loro le bottiglie piene, la buttano giù d’un fiato, senza respirare, senza perderne una goccia. Quanti sono? Chi sono? A quali ferite rispondono con la droga? Che vuoto riempie la sostanza? Una volta erano i drogati del boschetto di Rogoredo, una delle più grandi piazze di spaccio del nord Italia. Visibili a tutti affollavano l’ingresso della stazione ferroviaria di una delle città più ricche e contraddittorie del Paese. Ma quei corpi degradati davano fastidio e il boschetto andava “bonificato”. Poco alla volta l’esercito senza armi e dalla pelle fragile è stato spinto fuori, schiacciato sempre più in là verso il comune di San Donato. «La società li vorrebbe invisibili», racconta lo psicologo della Casa del Giovane di Pavia Simone Feder. È lui che otto anni fa ha messo su il team di volontari di Rogoredo, che con il tempo sono diventati cento e a turno lo accompagnano per abitare insieme questo avamposto della morte. «Ma queste persone non sono invisibili, sono dimenticate e basta. È troppo facile dire “non ho visto”, è comodo, ci giustifica». 

C’è un’uscita laterale della stazione di Rogoredo che porta in via Giovanni Battista Cassinis, qui non ci sono marciapiedi. Con le spalle alla stazione, a destra c’è il bosco, a sinistra i binari, al centro la strada a doppio senso di circolazione: nessun lampione a costeggiare i lati. C’è un ponte, dopo il ponte via Cassinis che lascia il passo a via sant’Arialdo;  qualche metro più avanti una piazzola: «Ce l’hai una siringa? Una nuova? Sì? Mi dai una siringa?». No, una siringa non ce l’ho. È in questa piazzola che il team Rogoredo ogni mercoledì allestisce un banchetto per dare – ai giovanissimi, giovani, adulti, anziani – cibo, acqua, vestiti, scarpe, intimo, disinfettante, garze, salviette igieniche.

Il team non viene solo per dare, viene per esserci. Per chiamare le persone con il loro nome. Feder li conosce tutti, si ricorda il dettaglio di ogni ferita, di ogni infezione. Quello tra lui e loro, tra i volontari e i tossicodipendenti, è un appuntamento non scritto. Quando qualcuno non arriva l’ansia sale. Feder con gli occhi scruta la strada e il bosco, il bosco e i binari. «Hai visto Sergio?», «Sai se è dentro?». Anche gli uomini e le donne di Rogoredo lo chiamano per nome: «Simo, Simo hai delle salviettine? E intimo da donna?». Maria si trascina in un paio di infradito di spugna dalla suola assottigliata, con Feder si conoscono da quattro anni. Lui scava nel baule e poi tra i sacchi dei sedili posteriori della sua auto. Le trova. Gliele dà. Maria ha entrambe le braccia fasciate da sopra ai polsi fino a sopra i gomiti. All’altezza delle vene le bende sono macchiate di giallo. Il pus infetto esce dalle ferite

Simone Feder non fuma, ma nella tasca posteriore dei Jeans, quando viene qui, tiene sempre un pacchetto di sigarette. «Vuoi una sigaretta», dice più o meno a tutti. È un modo per tenerli vicino, medicare loro – ogni volta – le ferite nuove o quelle che non sono mai guarite. «È più difficile rispetto a prima», racconta. «Più difficile rispetto a quando ho iniziato. Ora il degrado è più profondo». Anche parlare non è scontato. Sono per lo più agitati o assenti: «Cosa c’è dentro le dosi? Come sono tagliate? Nessuno lo sa, nessuno pretende che vengano fatte analisi o accertamenti, e così si condannano centinaia e centinaia di persone a una vita da zombie. Sono sempre più malridotti, sempre più disperati, le dosi si comprano a due euro alla volta. E più li lasci dentro questo degrado più diventano anche malati psichiatrici». 

Simone Feder è una persona che non ha paura dei corpi. Stringe le mani di tutti, li tocca senza timore. «Dipende dallo sguardo», dice. «Siamo abituati a guardare l’altro e chiamarlo in base alla sua patologia, in base alla sua dipendenza. Se invece lo guardi e lo chiami con il suo nome, è tutta un’altra storia. E questa cosa qua – questo stringere le mani, chiamare per nome – scardina qualcosa dentro chi ci sta davanti che lo attiva e lo accende. E allora gli dà senso. Il vero incontro ce l’hai nella misura in cui abbassi il tuo sapere e ti rendi conto di quanto ti arricchisce l’altro. Perché quanto sono sensibili e attente le persone che vivono la disperazione più cruda? Perciò ai volontari dico: chiamateli per nome, stringetegli la mano, dite il vostro di nome. Ci sono persone che non vengono chiamate per nome da anni». Il piazzale si riempie di molti stranieri e di italiani. Gli automobilisti vanno veloce su questa strada. A volte invece rallentano verso il piazzale, abbassano i finestrini e sembra che stiano guardando gli animali dentro le gabbie di uno zoo. Solo che qui di animali non ce ne sono, le gabbie sì, anzi solo uno e non è fatta di sbarre di ferro: «Il problema non sono i drogati», dice Feder. «Il problema è la droga».

A separare la strada e i binari c’è una recinzione di cemento, tra la recinzione e i binari c’è l’erba incolta. Dietro il piazzale un’apertura, si può entrare e uscire anche da quel punto. Le persone si bucano lì, o da lì raggiungono i casali abbandonati. Steso tra le erbacce c’è Igor, lo trova Feder. Il corpo rigido, immobile, buttato lì inerme. Pochi metri più avanti, su un muretto di cemento, due ragazzi con il volto semicoperto sciolgono la droga: un laccio emostatico, le siringhe, la loro dose. Feder lo scuote, ma Igor non risponde. Con un pezzo di stoffa blu gli copre una gamba, attorno alla gamba uno sciame di vespe. Un volontario chiama un’ambulanza, poi qualcuno comincia a lanciare i sassi nella loro direzione. C’è troppa attenzione. Igor si trascina fuori, si copre con un giubbino rosso e stringe tra le mani un ombrello nero, chiuso. Ricade a terra. Dentro ad una pantofola chiusa è appoggiato il piede, che non è più un piede. Ma una massa gonfia e infetta dalle dita fino a sopra la caviglia aggredita dagli insetti. Siamo all’aria aperta, ma l’aria puzza, e quell’odore viene dall’infezione del suo piede.

L’ambulanza arriva e Igor rimane fermo, non vuole andare. Tre operatori scendono e sigillano la barella con le buste delle spazzatura. In due lo raccolgono da terra, e lo sostengono da un lato e dall’altro, per le braccia. Poi lo aiutano a sdraiarsi. Igor va via con loro, tra le mani tiene ancora stretto il suo ombrello nero. «Non mollare», lo saluta Feder. Poi ricomincia il via vai di persone. Ma qualcuno molla, qualcuno muore, qualcuno non ce la fa e basta. «Perciò», dice Feder, «devo guardare il mondo dal tetto in su, e lo dico anche agli altri volontari. Io oggi continuo a insistere perché c’è bisogno di un cambio di paradigma. Tu non puoi rispondere a un disagio con contenitori sempre soliti. E quel disagio ci interpella. L’ultimo ragazzo che ho inserito in comunità non ha neanche 13 anni». 

Micol ha fame. Per tenere su i pantaloni pesanti di tuta nera, da un lato stringe un pezzo di stoffa dentro l’elastico giallo. Mirko arriva in carrozzella, ma non ha voglia di parlare. Matteo è trafelato. «Basta», gli dice Feder, «che vita è questa? È venuta anche tua mamma a cercarti dentro il bosco». Poi abbraccia una ragazza: «Lisa sei pelle e ossa». Lisa gli sorride, ma ha perso i denti. Lisa ha davvero un solo filo di pelle sottile attaccata alle ossa. È giovane, ma non se lo ricorda più, la droga sì è presa tutto. «Portiamo sempre anche gli assorbenti», spiega Michela Stassano, una volontaria del team. «Ma non li chiedono quasi più, a tante donne il ciclo non arriva e hanno sempre infezioni vaginali. Le ragazze sono di meno, ed è più difficile con loro. Spesso sono vittime di aggressioni e violenze. Ti affezioni alle persone, le conosci e poi hai paura quando non le vedi tornare». Roberto arriva scalzo, senza scarpe né calzini. «Le scarpe ci servono sempre», dice la volontaria, «ma non gli stivaletti, perché tutti hanno sempre le caviglie gonfie e non riescono ad infilarli».  

In questa terra di nessuno «comanda la droga», continua Feder. «Tu gli dici “non vedi come sei tirato?”. E loro ti rispondono “ma come faccio a non usare”. Come fa uno come Igor a camminare con quel piede? La disperazione e la droga ti fanno camminare. Non si sanno guardare dentro, ma non sono persone senza dignità perché poi ti chiedono il disinfettante, ti chiedono l’intimo pulito». Sono le dieci passate e il buio non è ancora pieno, il gruppo si disperde. Feder resta «sto aspettando una persona», dice. «Non l’ho vista, voglio capire se arriva. Voglio provare a proporle la comunità». Intanto nella stazione di Rogoredo è piena di spettri che chiedono l’elemosina. Sono fantasmi, ma visibili a tutti.

*Tutti i nomi sono inventati

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