un primo piano di un uomo che urla, dietro a lui un palazzo

Cinema

Tra i senzatetto di Termini, dove Dio è un diavolo

di Veronica Rossi

San Damiano, documentario di Gregorio Sassoli e Alejandro Cifuentes, racconta la vita delle persone senza dimora che abitano i dintorni della stazione Termini. Damian è il protagonista. Qui violenza e amicizia, rabbia e amore, luci e tenebre, lucidità e follia si fronteggiano e si mischiano. Mettendo in luce l'abbandono che rende invisibile chi vive sotto gli occhi di tutti

Un pugno che ti colpisce in pieno stomaco. San Damiano, il documentario di Gregorio Sassoli e di Alejandro Cifuentes, che ora sta girando le sale di tutta Italia, suscita talmente tante emozioni che diventa difficile da descrivere. Il film si concentra su Damian, un trentacinquenne polacco che, arrivato a Roma, si unisce alla comunità dei senzatetto che gravitano attorno alla stazione Termini, andando a vivere su una torre delle mura aureliane. Amore, amicizia, violenza, rabbia, speranza, delusione: negli 86 minuti di pellicola c’è tutto. E ci sono anche le contraddizioni della nostra società, che finge di non vedere chi, tra disagio mentale e dipendenze, vive ai margini dei margini. «Molti dopo le presentazioni ci chiedono come si può diventare volontari e questo è bellissimo», dicono i registi in un dialogo a tre.

Da dove nasce questo film?

All’inizio stavamo scrivendo un film di finzione. E per questo stavamo da un anno facendo volontariato: cominci a fare il volontario per ricerca e poi diventa un’esigenza. Abbiamo deciso di andare anche a dormire a Termini: ci siamo preparati i cartoni, abbiamo scelto l’angolo dove avremmo dormito. Dopo nemmeno mezz’ora abbiamo incontrato Damiano, che era arrivato il giorno prima a Roma.

E che impressione vi ha fatto?

È arrivato con un completo gessato e un tablet in mano. Ci ha detto che viveva su una torre. Ci ha incuriosito, non riuscivamo a capire chi avessimo davanti. Poi ci ha raccontato una storia che in realtà era una barzelletta: siamo morti dalle risate, c’è stata un’empatia e un’affinità iniziale. Gli abbiamo chiesto di mostrarci questa fantomatica torre in cui viveva, l’abbiamo seguito ai piedi della torre delle mura aureliane, che lui effettivamente aveva “conquistato”. Abbiamo iniziato l’avventura girando con lui dei video musicali, senza sapere dove saremmo arrivati, trasportati dall’entusiasmo. Poi ci ha detto «Perché non facciamo un reportage su di me?»

Delle persone sedute parlano, una indica con il dito, due sullo sfondo in piedi parlano

E voi avete accolto la proposta.

Abbiamo capito che la finzione non sarebbe stata all’altezza della realtà. Abbiamo accantonato il primo progetto e abbiamo cominciato il nostro viaggio con Damiano. Per i primi due mesi siamo stati solo con lui, insieme a Christopher (un’altra persona che viveva a Termini insieme a Damiano, presente nel documentario, ndr). Mentre lui si immergeva nella realtà dei senzatetto di via Marsala, anche noi lo seguivamo; abbiamo iniziato a scoprire questo mondo dall’interno.

Il volontariato nel film ha un ruolo importante. Si vede distribuire cibo, vestiti. Eppure in tutto il documentario si sente una sensazione di abbandono di queste persone.

Il film segue chi sta ai margini dei margini. Le associazioni fanno un lavoro enorme, ma ci sono alcune persone che comunque non vengono raggiunte. Anche perché a volte non vogliono essere raggiunte.

Anche le istituzioni sembra siano presenti solo con un ruolo “punitivo”, penso a quando arrivano polizia o carabinieri.

Le istituzioni non sono assenti, ma sicuramente lo Stato potrebbe fare di più. A volte si tende a curare il sintomo, mentre il problema è legato a qualcosa di più profondo, che ci coinvolge tutti. Perché viviamo in un mondo individualista, in cui il collettivo sta perdendo sempre più di importanza. I volontari delle associazioni fanno un lavoro preziosissimo, ma non hanno sempre gli strumenti per andare in profondità: danno pasti, coperte, aiutano a fare i documenti a chi sta per strada. Però ci sono delle regole nell’accoglienza, per esempio alla Caritas. C’è qualcuno che rimane fuori per tutelare la collettività che è dentro, ma resta confinato in un manicomio a cielo aperto.

Le persone che avete seguito hanno spesso problemi di disagio mentale e di abuso di sostanze. Possiamo dire che in Italia abbiamo una legge bellissima – la 180 – ma facciamo fatica ad applicarla?

Non è la nostra sfera di competenza, abbiamo fatto un documentario, abbiamo vissuto il problema sulla nostra pelle. Ci piace che le persone che guardano il film si inizino a interessare a questo tema. Tanti ci chiedono: «Cosa posso fare il volontario, come posso aiutare?». Questa è la cosa più bella che possa succedere. Ma non ci possiamo sostituire a chi dedica la sua vita allo studio di questi fenomeni. Solo per esperienza, possiamo dire che sicuramente tra la Legge Basaglia e la sua applicazione sembra che ci sia uno iato enorme che non è stato ancora affrontato.

Il documentario ci permette di stare con quelli che vengono chiamati “gli invisibili”. Che poi di invisibile non hanno nulla: lo sono perché non li vogliamo vedere.

Nel film c’è una scena che colpisce per una forte contraddizione: l’accostamento tra le persone che lanciano monetine nelle fontane e queste persone che non hanno nulla e cercano di recuperarle. È un passaggio forte, che ti fa risaltare l’assurdo di quanto accade.

È un passaggio emblematico. Il film ribalta il punto di vista, i passanti che vanno a prendere il treno diventano lo sfondo, mentre il documentario ci permette di stare con quelli che vengono chiamati “invisibili”. Che poi di invisibile non hanno nulla, vivono per strada, davanti a tutti. Lo sono perché non li vogliamo vedere.

Nel finale del film, Damiano finisce in carcere, viene condannato ai domiciliari, ma non avendo un domicilio, li sconta in carcere. La giustizia, che dovrebbe essere uguale per tutti, pare non esserlo in alcuni casi.

Abbiamo vissuto in prima persona delle stranezze per quanto riguarda il carcere. Damiano è stato prelevato dalla strada. In attesa di giudizio ha scontato due mesi di reclusione. Si è disintossicato dall’alcool, ha fatto un percorso farmacologico. Nel frattempo è ingrassato 30 kg, ha preso moltissimi farmaci. Quando è uscito dal carcere è tornato a Termini, non avendo una dimora. La sera stessa gli hanno rubato i documenti, perché accade così: ti aprono le tasche col taglierino, mentre dormi ti prendono anche le scarpe. Damiano si è ritrovato senza documenti per i medicinali, senza soldi. Quindi si è somministrato la propria “autoterapia”, l’alcool. Non non siamo medici, di nuovo non è nostra competenza, ma in carcere pare che i farmaci siano soprattutto sedativi: devi condividere la cella con altre persone, non ci sono gli strumenti per affrontare un caso come quello di Damiano.

E dopo il carcere, nulla.

Pare non ci sia nessun tipo di lavoro per aiutare una persona così a reitegrarsi. Siamo stati alle udienze e ne abbiamo viste parecchie simili a quella di Damiano, di persone che magari hanno rubato solo un profumo per rivenderlo. C’è un dispiego di risorse enormi, spesso chi vive a Termini entra in carcere qualche mese, viene rilasciato, poi torna dietro alle sbarre. Vivono tra la strada e il penitenziario. C’è una sezione del tribunale di Roma in piazzale Clodio che si occupa solo di queste persone.

un uomo in piedi sul tetto di un furgone, a lato della spazzatura

Nel documentario si vede anche moltissima violenza, che pare quasi “normalizzata” in quel contesto sociale.

Una volta che siamo entrati nel mondo delle persone che vivono in strada, ci ha stupito molto vedere la tangibile linea immaginaria che li divide dai passanti. Fa impressione: a livello mediatico si incontrano le storie dei senzatetto solo quando i due mondi si toccano perché magari c’è un episodio grave e quindi viene lanciato un allarme. La violenza in realtà si consuma principalmente tra chi vive per strada; questo forse è anche il motivo per cui queste persone vengono solo spostate in operazioni “cosmetiche”, ma il problema non si affronta. Se fossero violenti coi passanti si farebbe qualcosa. La violenza fa parte del codice e si mischia con l’amore. Li vedi che fanno a botte, ti sembra veramente che rischino la vita e un’ora dopo si stanno offrendo una birra o si passano una canna. Un altro tipo di violenza è quella contro i simboli della società che li rifiuta.

In che senso?

Nel film, per esempio, Damiano fa pipì su una moto. C’è un’altra persona che spacca i finestrini di un furgone, un’altra prende a calci un monopattino. Secondo noi sono richieste di attenzione verso una realtà che li ha resi invisibili.

In un passaggio del film, Damiano dice che Dio è un diavolo, perché mette all’inferno chi ruba una mela o un pezzo di pane perché ha fame.

La nostra interpretazione di questa frase è sempre legata alla questione del rifiuto da parte del mondo, di cui Damiano non riesce a seguire le regole. «Dio è un diavolo» sembra quasi dire che la società è indifferente se non addirittura violenta. C’è sofferenza nell’essere separati da una realtà che non ha niente per te.

Che ne è adesso dei protagonisti del documentario?

Damiano è stato trasferito in un ospedale psichiatrico in Polonia e ci vive da un anno e mezzo. Lo sentiamo spesso al telefono, ma è in una struttura carceraria, in un manicomio. Non c’è stato Basaglia là. Alessio (un’altra persona che si incontra nel documentario e che passa del tempo con Damiano, ndr), invece, dopo nove anni in strada, è in una comunità, ha trovato la forza di rimettersi in piedi e di farsi aiutare. Sta facendo un bellissimo percorso e viene anche a presentare il film a Roma con noi. Attraverso le presentazioni facciamo anche una raccolta fondi perché lui possa rimanere due anni nella struttura, senza preoccuparsi delle spese.

Nel film Alessio dice di avere due figli. Riuscirà a rivederli?

È proprio questo l’obiettivo che lo motiva. Vuole curarsi fino in fondo. A settembre passerà in una comunità più intensa: lo fa nella speranza di essere degno, nonostante i suoi inciampi, di riabbracciare i figli e di avere un’altra opportunità con la famiglia.

Tra tutte le persone che avete filmato, lui è l’unico ad avere un legame con la famiglia. Viene ripreso, infatti, mentre telefona al padre che gli ha mandato dei soldi. Può essere anche questo un elemento che l’ha aiutato ad avere una forza in più per risollevarsi rispetto agli altri?

Lui ha tenuto un piccolo piede nella famiglia grazie al rapporto col padre e questo sicuramente gli dà un sostegno. Damiano è in una situazione completamente diversa, perché non ha nessuno. La madre non ne vuole sapere di lui, è completamente abbandonato a sé stesso. È sicuramente molto più difficile.

Le foto nell’articolo sono fornite da Studio Morabito

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