Mi è capitato di incontrare sull’autobus che mi porta in redazione una ragazza. 25 anni, non parla italiano ed è arrivata in Italia da dieci mesi grazie a un ricongiungimento familiare. Portava a tracolla un marsupio port-enfant con una bellissima creatura di due mesi, che dormiva beata. Vedendo che aveva tratti somatici simili ai miei, intuii che era egiziana, e mi son messa a chiacchierare.
Mi ha raccontato che proveniva da un villaggio rurale situato nei pressi del delta del Nilo. Si chiama Neema (“Grazia”), un nome che a me è sempre piaciuto, uno di quei nomi tradizionali e molto dolci. Quando però le ho chiesto come aveva chiamato la bimba, sono rimasta senza parole. Non tanto per il nome – viva la libertà – ma perché non centrava proprio niente con il contesto dal quale proveniva. Mi disse sorridendo che la bimba si chiamava “Madonna”. Come la Vergine?, chiesi. Risposta, fiera e convinta: “No, come la cantante”. Piccolezze, direte, se si pensa che nei giorni delle rivolte una coppia egiziana chiamò la propria figlia Facebook.
Se ripenso a quando io e mio marito abbiamo dovuto scegliere i nomi per i nostri figli… Il primo, soprattutto, è stato causa di litigi, di rivendicazioni di appartenenza. Io avrei scelto un nome islamicamente importante come Abd-El Rahman, il mio preferito sulla lista, e poi di italiano bastava già il cognome… Peccato che mio marito non riuscisse neppure a pronunciarlo correttamente. Così puntai su un’alternativa più semplice, Mohammed, ma niente da fare. Mio marito diceva che era troppo mussulmano, dopo l’11 settembre, insomma… Ci voleva qualche cosa di più neutrale, semplice e trasversale, facilmente pronunciabile. Alla fine la spuntò “Alessandro Omar”, e ammetto che anche questa volta vinse il nostro buon senso, e la regola per far durare un matrimonio, anche “misto”: un po’ per uno non fa male a nessuno.
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