Welfare
Trovar casabcon la filiera corta
housing sociale Claudio Bossi, presidente della cooperativa La Cordata
di Redazione

L’abitare sociale è la nuova carta su cui il governo ha scommesso per rispondere al disagio abitativo di milioni di famiglie italiane. Sul tappeto c’è un business da 3 miliardi di euro l’anno. Che a fianco del pubblico e del privato for profit vedrà per la prima volta in campo il privato sociale. Un meccanismo virtuoso che abbassa i prezzi e taglia fuori gli intermediari.
Ecco come L ‘ implosione della bolla immobiliare non ha di certo alleviato la fame di mattone. In Italia sono 600mila le domande giacenti nelle graduatorie dei Comuni per l’accesso all’edilizia popolare pubblica. Secondo Nomisma, almeno 900mila giovani, 150mila studenti e 100mila lavoratori pendolari esprimono una potenziale domanda di case in affitto a canone moderato. Il centro studi bolognese, poi, valuta in circa un milione gli immigrati regolari che vivono in condizione di abitazione precarie. Tirate le somme, nel Belpaese mancano da un milione a tre milioni di case. Che fare? La formula magica, secondo il governo, sta nel social housing. È questo infatti l’architrave del piano-casa ideato da Giulio Tremonti. Che nel 2009 promette di decollare definitivamente grazie all’intervento della Cassa depositi e prestiti, e che, secondo Sergio Urbani della Fondazione Housing sociale della Cariplo, vale 3 miliardi all’anno di sviluppo del mercato.
Il primo mattone del programma sull’abitare sociale lo metterà con ogni probabilità però una cooperativa sociale: la milanese La Cordata aderente al circuito Cgm. Proprio in questi giorni il presidente Claudio Bossi ha presentato a Palazzo Marino il suo piano di sviluppo nelle otto aree della città individuate per il lancio del social housing. In tutto circa 1.500 alloggi su un’area di 5.500 metri quadrati, che oltre alle abitazione dovranno ospitare ogni genere di servizio, dall’asilo nido al supermercato. In soldoni, un investimento da 45 milioni di euro. Mai in Italia avevamo assistito a un intervento di social housing di queste dimensioni.
Vita: Dall’edilizia popolare al social housing, evoluzione terminologica o vera svolta nell’approccio alla questione-casa?
Claudio Bossi: Da 15 anni nel nostro Paese non si fanno interventi di edilizia popolare. Questo è il punto di partenza che ha generato la parolina magica dell’housing sociale. Che, al di là della facciata, coglie un reale passaggio di prospettiva. L’housing sociale concilia un mix educativo e un mix funzionale. Ovvero mette assieme persone di diverse condizioni socio-economiche e le fa vivere, non in un contesto di casermoni marginali e senza servizi (per intenderci lo Zen di Palermo o il Gallaratese e il Gratosoglio a Milano), ma in una dimensione urbanistica fatta di case, ma anche di attività commerciali, di servizi informativi e di supporto alla famiglia. Poi c’è un secondo livello di innovazione.
Vita: A cosa si riferisce?
Bossi: L’operatore pubblico non è più l’unico protagonista. Ma è affiancato da operatori privati. Sia del terzo settore, sia del for profit.
Vita: Il risultato è che si incomincia già a parlare di social housing come nuovo “business immobiliare”. Quanto la spaventa una terminologia di questo tipo?
Bossi: Occorre intendersi sui ruoli. Al pubblico spetta il compito di mantenere la finalità di questi interventi e di governare il territorio. Per le imprese private il social housing è invece un’opportunità in un momento di crisi. La precondizione è che accettino rendimenti più bassi. Cosa che, almeno per i costruttori, nella nostra esperienza sta già avvenendo. E, come ho detto, non per ragioni ideologiche o di tensioni verso il bene comune, ma per oggettivi calcoli di business. Oggi un operatore delle costruzioni si accontenta di profitti che vanno dal 5 al 10%. Prima erano dal 20 al 30%. Si tratta di margini compressi, ma a cui corrispondono volumi molto più vasti, considerata la portata del fabbisogno di case. Poi c’è il terzo settore, che deve gestire l’intervento. Ma non solo. Il privato sociale dovrà anche dimostrare di essere in grado di contaminare il mondo delle imprese dal punto di vista della loro responsabilità nei confronti della comunità.
Vita: Quali sono i vincoli di un intervento di housing?
Bossi: Nel nostro caso il bando parla di una quota minima del 25% che deve essere data in affitto e il 10% in affitto sociale ai canoni dell’edilizia residenziale pubblica. Poi c’è una parte a canone convenzionato in un range di affitto al metro quadro che grossomodo vale il 70% dei prezzi di mercato e il resto in edilizia libera convenzionata, ossia a prezzi di vendita bloccati che vanno da 1.650 a 2mila euro al metro quadro. Una struttura di questo tipo dà quindi anche la possibilità al costruttore di realizzare cash con la vendita (oggi il costo di costruzione a Milano è di circa mille euro al metro quadro).
Vita: L’housing sociale può essere davvero una risposta di massa al disagio abitativo come lo è stata l’edilizia popolare?
Bossi: Credo che ormai si possa ragionare su grandi numeri. Occorre però verificare quali siano i termini del disagio abitativo. A Milano, per esempio, ritengo che molti dei beneficiari dell’Aler non avrebbero più i requisiti per quel tipo di abitazione.
Vita: A quali profili sociali si rivolgerà in prospettiva l’abitare sociale?
Bossi: Da una parte ci saranno sempre le fasce più in difficoltà. L’orizzonte verso cui andiamo però è quello del mescolamento sociale. Penso, per esempio, al co-housing. Che oggi interessa una fascia di popolazione culturalmente ed economicamente agiata, che però è alla ricerca di una qualità abitativa che presto potrà ritrovare nell’housing sociale. Nelle nostre aree offriremo servizi come il community center, il car e bike sharing di condominio, il market di prossimità, la consegna della spesa alle persone anziane o la sala polifunzionale. Tutti elementi di attrazione per chi concepisce il suo quartiere in un certo modo.
Vita: Il tema dell’immigrazione come entra in progetti di questo tipo?
Bossi: Qui al Villaggio Barona, con numeri certo molto contenuti, il 30% delle residenze sono di immigrati, che riescono a pagare un canone convenzionato e si trovano in una dimensione abitativa dove il tema della conflittualità etnica non esiste. Fra l’altro, gli stranieri, che spesso vivono in famiglie numerose, necessitano stock da 100-150 metri quadrati che difficilmente riescono a intercettare sul mercato a costi ragionevoli.
Vita: Un’ultima domanda: a chi dà fastidio il co-housing?
Bossi: Alle imprese immobiliari, sia quelle tradizionali sul modello Pirelli RE, sia quelle cooperative. Per almeno due ragioni: l’incremento dell’offerta a prezzi contenuti trainerà verso il basso l’interno mercato, ma soprattutto il social housing rappresenta nei fatti la filiera corta del mattone: gli intermediari sono tagliati fuori.
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