Alessandro Boido ha una storia bellissima, nata in quella famiglia di Valdivilla, frazione di Santo Stefano Belbo, che sta di fronte alla collina di Moncucco, località spesso evocata da Cesare Pavese nel suo La Luna e i Falò. Quando lo conobbi era un esuberante ragazzo dei giovani Coldiretti e fra i primi ebbe l’idea di fare l’agriturismo. Mise mamma Rina ai fornelli e lei iniziò a fare quei tajarin (le tagliatelle di Langa) fantastici. Poi ripropose la cougnà, una salsa antica, patrimonio delle famiglie contadine, che a fine vendemmia raccoglievano tutto ciò che era rimasto in vigna (grappolini sparsi, noci, nocciole, fichi) e lo mettevano a bollire. Quando sarebbe arrivato l’inverno, la cougnà avrebbe impreziosito la neve, ma anche la polenta fumante e, molti anni dopo, i formaggi, a cominciare dalla robiola di Roccaverano di pura capra.
Quest’anno Rina e Riccardo, i genitori di Alessandro, hanno festeggiato i vent’anni della loro azienda, che produce un saporoso Moscato d’Asti. Un bel traguardo, sancito da una festa dove hanno fatto assaggiare dieci annate di Moscato d’Asti. Be’, non ci crederete, ma sentire la freschezza in un Moscato del 2003, abbinarlo a un gambero avvolto in una panatura di nocciole (ricetta del sommo ristorante la Ciau del Tornavento di Treiso), m’ha quasi commosso. Nel Moscato invecchiato, quello delle “vigne vecchie” di Ca’ d’Gal (il nome dell’azienda) senti i profumi dell’alloro, della menta, del glicine. E poi la frutta matura: le pesche di vigna, l’ananas. Alla festa ho abbracciato Rina e Riccardo, che ballavano sull’aia. A un certo punto è mancata l’acqua, ma non hanno fatto tragedie: i ritmi del mondo contadino sono diversi. E tutto s’aggiusta. Alessandro mi ricordava che i suoi genitori, quando andavano nei campi, si portavano una borraccia di Moscato. E lo bevevano con il pane e salame oppure con la soma d’aj (la crosta del pane strofinata di aglio). Ho provato anch’io. Ed è stato un piacere immenso. Che belle le cose semplici che tutto concorre a nasconderci.
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