Non profit

Una sperimentazione che ha funzionato. Ma si può migliorare ancora

Gian Paolo Barbetta (Unità strategica per la filantropia)

di Redazione

Un donatore che ha un patrimonio significativo, ma non ingente ha due possibilità: o fa la sua fondazione oppure decide di destinare i fondi a un’associazione benefica. Nel primo caso c’è il rischio, se le risorse sono limitate, che il progetto non vada lontano. Nel secondo, invece, che restino senza risposta alcuni interrogativi. L’associazione, ad esempio, sarà sempre in grado di perseguire nel tempo la volontà del donatore? E se il filantropo decidesse di indirizzare le risorse verso altri bisogni? L’alternativa è la fondazione di comunità: consente di rispettare la volontà del donatore attraverso la costituzione di un fondo individuale, all’interno di un patrimonio collettivo». Gian Paolo Barbetta, responsabile dell’Unità strategica per la filantropia della Fondazione Cariplo, esperto di non profit e docente dell’Università Cattolica di Milano, ricorre a un esempio per spiegare il valore aggiunto delle fondazioni di comunità. La Fondazione Cariplo ne ha istituite 15 a partire dal 1998.
Professore, com’è nata l’idea scommettere sulle fondazioni di comunità?
L’obiettivo è stato duplice. Da una parte, dotare il nostro Paese di un insieme di infrastrutture sociali alternative a quelle esistenti e in grado, soprattutto, di dare spazio e strumenti alle scelte filantropiche. Dall’altra, rispondere a una necessità della Fondazione Cariplo: effettuare donazioni a livello locale. La Fondazione Cariplo ha preferito avvalersi di strutture specializzate territoriali anziché aprire suoi uffici locali decentrati. L’idea di fondo, insomma, è stata: creiamo intermediari filantropici che fanno quello di mestiere e che sanno raccogliere e spendere bene i contributi erogati. Anzi, che raccolgono proprio perché dimostrano di spendere bene.
Si può tracciare un bilancio?
Le fondazioni sono sul territorio lombardo e non solo. Segno che altri soggetti hanno trovato il modello interessante. Le fondazioni di comunità, soprattutto, non sono più viste solo come un braccio operativo della Fondazione Cariplo. Sono riuscite, inoltre, specie quelle costituite per prime, a completare la sfida patrimoniale.
Le difficoltà incontrate invece?
Il problema iniziale è stato culturale. C’è l’idea che per fare filantropia basti un po’ di buon cuore, qualche quattrino e un’organizzazione a cui regalare i soldi. Il nostro tentativo è stato invece affermare un modello di filantropia diverso: più attento, neutro e trasparente nelle scelte, non legate esclusivamente al filantropo di turno. C’è stato inoltre il tentativo di qualche amministrazione locale di mettere il cappello sulle fondazioni di comunità. Un’altra difficoltà è stata l’impostazione top down data al progetto. Forse era l’unico modo per farlo. Inizialmente però non ha aiutato ad allargare il giro dei soggetti coinvolti e la raccolta di donazioni. Infine, la sfida patrimoniale. L’idea di sfidare le fondazioni a raccogliere somme che sarebbero state raddoppiate dalla Fondazione Cariplo, in alcuni casi, ha generato distorsioni nei comportamenti rispetto alle finalità complessive del progetto.
Cosa c’è nel futuro delle fondazioni di comunità targate Cariplo?
Le prossime sfide sono due: raggiungere un patrimonio minimo per le Fondazioni che ancora non lo hanno fatto e completare il processo di progressiva autonomizzazione dalla Fondazione Cariplo.

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