Nella difficile Haiti Save the Children è sbarcata nel 1978. Per aiutare i minori, proteggerli anche da vari tipi di abusi (anche sessuali), mandarli a scuola, sostenere lo sviluppo locale, fare prevenzione sanitaria (nell’isola la mortalità infantile è fra le più alte del mondo – non sopravvivono 57 bambini su mille – mentre gli orfani da Aids sono circa 200mila). Aveva anche attivato un programma di adozioni e sostegno a distanza. «Ora però l’emergenza ha cambiato le priorità», spiega Valerio Neri, direttore della sezione italiana. «Per i prossimi dodici mesi intendiamo attivare programmi immediati di ricongiungimento familiare perché i tantissimi bambini rimasti apparentemente soli possano rientrare in contatto con i genitori o almeno con dei parenti. Contiamo anche di lanciare iniziative di assistenza sanitaria e psicologica. Lo choc da terremoto è profondo: causa insonnia, problemi di alimentazione, scarsa capacità di concentrazione. Per questo occorre favorire subito il superamento del trauma».
In questa prima fase di emergenza, la onlus ha mandato nell’isola una squadra internazionale di 20 persone specializzate in emergenze. Si occuperanno fra l’altro dei 13 dispersi fra i 170 addetti di Save the Children (uno di loro, l’haitiano 24enne Similien Mackendey, è morto). Nel frattempo si sta lavorando per riattivare al meglio gli uffici di Port-au-Prince (gli altri tre sono a Jacmel, Massaide e Gonaives). Non sono crollati (tant’è che la piccola Winnie, estratta dalle macerie dopo tre giorni, è stata portata nelle vicine strutture di Save the Children), ma sono compromessi. «La popolazione haitiana», conclude Neri, «sta dimostrando una grande capacità di resilienza, di saper cioè reagire di fronte a un trauma così forte».
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