Puglia

Ritornare a Bitonto, sospesa tra splendore e oblio

Tornare a Bitonto è un atto sacro, un confronto tra la sua bellezza storica e le attuali fragilità. Come il Sud, Bitonto è sospesa tra splendore e oblio, tra la sfiducia giovanile e le periferie trascurate. La cultura è vitale, ma richiede responsabilità. Segnali di speranza, come la Fondazione Opera Santi Medici e Giovanni XXIII, dimostrano che con coraggio e visione, Bitonto può costruire un futuro innovativo, anche grazie a chi, pur lontano, continua a sceglierla

di Angelo Palmieri

Ritornare là dove si è imparato a guardare il mondo non è mai soltanto percorrere una distanza. È un atto interiore, quasi sacrale. È come posare lo sguardo su ciò che si conosce da sempre e accorgersi che nulla è più uguale. Lo sguardo si fa più lento, come quello di chi torna dopo una lunga veglia; più attento, come chi cerca tracce nel silenzio; più esigente, perché l’amore per un luogo, quando è autentico, non smette di reclamare giustizia.

Vivo da anni a Orvieto, città dell’alto Centro Italia, ma le mie radici affondano nella pietra calda di Bitonto, antica città pugliese a pochi chilometri da Bari, nel cuore del Sud. Ritrovare la propria terra, come ho fatto di recente, è ogni volta un esercizio di verità: il confronto tra ciò che resta e ciò che manca, tra ciò che pulsa e ciò che resiste.

Bitonto è una città che incanta. I palazzi signorili che raccontano di un passato aristocratico, le chiese romaniche che custodiscono silenzi millenari, il fervore culturale che, in alcune stagioni, ha acceso la città come un laboratorio vivo e palpitante. Tuttavia, sotto questa superficie di bellezza si cela un senso profondo di sfiducia: quella dei giovani che faticano a immaginare un domani, delle periferie che invocano ascolto, di un corpo sociale che rischia di smarrire la direzione del proprio cammino collettivo.

Guardare oggi Bitonto con gli occhi di chi vive altrove è come riaprire un album di famiglia in cui le fotografie non sbiadiscono, ma parlano. Da un lato, l’orgoglio testardo per una terra che, a tratti, ha saputo trasformare la cultura in bene vivo, condiviso, accessibile. Dall’altro, l’amarezza per ciò che non è stato: le promesse rimaste a metà, i quartieri in attesa di rinascita, i ragazzi che imparano presto a non aspettarsi nulla. Le fragilità si sono fatte sistema, le reti educative implorano ossigeno, visione, coraggio. Bitonto, come molte città del Sud, resta sospesa tra splendore e oblio, tra la dignità dei gesti quotidiani e l’indifferenza di chi avrebbe dovuto scommettere davvero sul domani.

La cultura non basta se non si fa anche responsabilità militante, spazio di partecipazione, leva per ricucire le fratture sociali. È in questa tensione, tra incanto e necessità, che si gioca il destino delle nostre città meridionali. Non è sufficiente tornare a casa: bisogna tornarci con occhi che non abbiano il torbido dell’atropina, sguardi liberi e inquieti, capaci di interrogare, provocare, proporre. Bitonto può ancora diventare un laboratorio artigianale di futuro innovativo, ma servono opzioni strategiche coraggiose: più luoghi per i giovani, più cura delle periferie, più fiducia nelle energie diffuse. Eppure, alcuni segnali di speranza già si intravedono. Penso, ad esempio, all’impegno tenace della Fondazione Opera Santi Medici, che rappresenta un presidio sociale, sanitario e culturale tra i più significativi della città. Un luogo dove la prossimità si traduce in servizi concreti, educazione alla legalità, percorsi di cura e accoglienza, attenzione quotidiana agli invisibili.

Allo stesso modo, la Fondazione Giovanni XXIII si distingue per il lavoro assistenziale e formativo portato avanti con passione e continuità. Attraverso i suoi centri e le attività rivolte alle famiglie, agli anziani e alle persone con disabilità, contribuisce a tessere relazioni di senso e a custodire quella trama sottile che tiene insieme una comunità. «Qui si nasce con il Sud addosso, e ci vuole tempo per capire se è un peso o un’ancora», racconta Francesco, 22 anni, diplomato e in cerca di lavoro. «A volte ti sembra che tutto sia già scritto: studi, aspetti, resisti. Poi, però, incontri persone, occasioni, spazi dove puoi ancora dire la tua. Non servono miracoli, solo che qualcuno ti ascolti sul serio».

«Bitonto è casa, ma è anche fatica», aggiunge Angela, 38 anni, madre di due bambini e operatrice in un doposcuola informale di quartiere. «Ogni giorno vedo famiglie che si arrangiano come possono, tra lavori precari e solitudini che pesano. Ma ci sono momenti in cui qualcosa si accende: quando un ragazzo torna a scuola, quando una madre si fida e chiede aiuto. È lì che capisci che l’insieme di legami non è un’idea: è un corpo vivo, che soffre ma può guarire». Chi vive lontano non è escluso da questa sfida culturale e antropologica. Può, anzi, esserne parte attiva, portando contaminazioni, connessioni, visioni. Perché non basta che un contesto ci appartenga per nascita: occorre che continuiamo ad appartenergli per scelta.

Fare ritorno alle origini, allora, non è soltanto una professione di fede affettiva o la ricerca di volti familiari e luoghi del cuore. È un’attenzione che si fa interrogativa, critica, ma anche carica di possibilità. Riprendere la via di casa è un confronto silenzioso tra ciò che si era e ciò che si è diventati, tra le promesse mancate e le speranze che ancora resistono. È un momento propizio per interrogarsi: perché alcune realtà riescono a rigenerarsi, mentre altre si ritrovano imprigionate in una paralisi che logora?

Un tessuto sociale è vivo quando riesce a custodire la memoria e, al contempo, ad aprirsi al futuro. Quando non si chiude nella nostalgia, ma si interroga, si espone, si rinnova. Riavvicinarsi, per chi ha vissuto altrove, può diventare un gesto potente: contribuire, in forma nuova, alla cura di un destino comune. Perché appartenere a un luogo non significa solo esservi nati, ma continuare a sceglierlo come parte della propria storia. E a lottare, in modi sempre inediti, perché quella storia resti aperta, condivisa, trasformativa.

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