Attivismo
Volontariato, quello che non dicono i numeri dell’Istat
Il presidente del Movimento di volontariato italiano Gianluca Cantisani dà una lettura dell'ultimo report dell'Istat che parla di un calo dell'impegno volontario: «Questo mondo sta cambiando e non può essere misurato come 10 o 20 anni fa. Mi colpisce poi come cresca il numero di chi si dedica a collettività, ambiente e territorio (+14,7%)»

Un italiano su dieci si dedica ad attività di volontariato. Lo confermano i dati Istat pubblicati lo scorso 29 luglio nel report “Il volontariato in Italia – Anno 2023”. Si registra un calo rispetto alla precedente rilevazione, fatta 12 anni fa. «Dobbiamo però capire che i tempi sono cambiati e che l’attività di volontariato è cambiata con questi», è il primo commento di Gianluca Cantisani, presidente del Movimento di volontariato italiano – Movi. Con lui approfondiamo un argomento che va ben oltre la stima statistica.

«Partiamo da un presupposto: il volontariato, nel corso degli ultimi 50 anni, è cambiato radicalmente», sottolinea Cantisani. «Gli stessi dati Istat ci dicono che si sono ridotti notevolmente il volontariato religioso, quello sportivo e nelle corsie d’ospedale. Per intenderci, quelle attività che facevano molti nostri genitori. Ma c’è un elemento in controtendenza che reputo estremamente interessante, vale a dire l’aumento dell’impegno sul fronte del bene comune e del territorio, per esempio sotto i profili ambientale e culturale. Significa che è in atto una trasformazione di portata storica e sociale. È difficile comprendere come fosse la situazione nel 2013, da questo punto di vista, ma avverto un cambio di passo generazionale.
Analizziamo i diversi elementi, partendo dall’emorragia di volontari.
Il Covid ha influito pesantemente, soprattutto tra i più anziani: il calo del 3% potrebbe anche essere imputabile alla sola pandemia ma, ovviamente, dai dati non si può evincere con certezza. Di sicuro c’è che una buona parte della popolazione non è più disponibile a fare ciò che ha fatto per una vita. Dobbiamo prenderne atto. Il volontariato dedicato alla cura di persone care occupava davvero la vita dei volontari, era una sorta di “lavoro della pensione”. Da una risposta ai bisogni individuali diventava una risposta collettiva. L’incremento rilevato dall’Istat si riferisce soprattutto al bene comune, alla collettività, e riguarda le generazioni meno anziane.
È un modo di fare politica differente rispetto agli anni ’60 e ’70.
Una fetta consistente della popolazione si dedica ai cambiamenti dei rispettivi territori, e di questo sono contento: è come se quel volontariato politico, di cui noi di Movi parliamo da sempre, si sia rafforzato. Le persone sono più consapevoli che la loro azione possa determinare un cambiamento nel proprio territorio.

Possiamo dire che sono cambiate sia la percezione e sia le priorità da parte delle persone che vogliono dedicarsi al volontariato?
Assolutamente sì. È un volontariato più consapevole. È differente dal volontariato nelle corsie dell’ospedale, che fortunatamente c’è sempre anche se è meno forte di prima. Non è più nemmeno il volontariato sportivo, legato al tempo libero che molti genitori dedicano all’associazione sportiva per la quale è tesserato il proprio figlio. Qui parliamo di un volontariato che esce allo scoperto, quasi per fare politica. Questo per Movi significa agire dal basso per il cambiamento. È un segnale importantissimo, nella speranza che venga confermato: come sappiamo, i dati sono pur sempre numeri. Se lo leghiamo alle buone pratiche e alle esperienze straordinarie che VITA racconta da 30 anni, ogni giorno, emerge un quadro confortante: significa che queste esperienze stanno prendendo il sopravvento e diventando azione concreta. Proprio nel momento in cui le istituzioni stentano a dare risposte. Il rischio è che le persone si siano sostituite ai doveri dello Stato, e questo tipo di volontariato mi piace di meno perché tampona nell’emergenza ma non risolve i problemi. È una cosa che peraltro non compete al nostro mondo e fa capire che si è rinunciato a cambiare il Paese.
Teme che i volontari possano compiacersi?
In effetti, sì. Perché è un rischio sempre presente nella vita delle persone. Può diventare il nostro hobby, il nostro lavoro positivo perché l’altro non ci piace. Tutti noi dovremmo chiederci che cosa vogliamo fare una volta arrivati alla pensione. Non dobbiamo arrivare a riempire il tempo. È un aspetto che riguarda molti di noi, ormai prossimi alla pensione.

In una nota, Movi sostiene che «conteggiare il numero di volontari nel nostro Paese con gli stessi sistemi di 10, 20 o 30 anni fa, senza tener conto del cambio culturale, sociale e lavorativo che l’Italia ha attraversato, non fotografa la situazione».
Come ho detto, guardando i dati generali, sembra che ci sia una diminuzione di volontari in Italia. Osservando il cambiamento in atto, è vero che c’è una riduzione nei numeri ma ci sono almeno due spiegazioni: la pandemia, che ha lasciato un segno indelebile, e la riforma del Terzo settore. Le organizzazioni di volontariato – Odv si sono ridotte parecchio, anche perché molte realtà erano ridotte all’osso. Spesso erano sorrette da persone molto anziane, in alcuni casi novantenni, ma bisognerebbe chiedersi quale fosse la ricaduta delle loro attività nel territorio. Mi colpisce molto il calo del 10,1% relativo a «coloro che offrono aiuto diretto a persone conosciute»: immagino che si riferisca alle persone che svolgono attività nelle comunità oppure nel ruolo di caregiver, ma anche quanti semplicemente fanno la spesa per i propri genitori. Però questo tipo di volontariato è relativo. Io ho genitori novantenni ma quello che faccio per loro non è certo volontariato.
Il mondo è cambiato, non poteva restare immutato il volontariato italiano.
Certo che no. Quand’ero giovane, mi sono inventato l’attività di volontariato che più mi intrigava: l’ho fatto in campo educativo, in un sistema pacifista e non violento. Così hanno fatto tanti altri giovani, determinando la nascita del Terzo settore negli ultimi 40-50 anni. Non ci fossero stati tanti giovani che sognavano un futuro diverso, non ci sarebbe il mondo di oggi. Perciò non capisco perché ora pretendiamo dai giovani che vengano a prendere in mano le organizzazioni del passato, che magari non svolgono più un lavoro nei territori. Per me il volontariato deve tenere in conto maggiormente la realtà che cambia. L’Istat ci dice che cresce il numero di chi si dedica a collettività, ambiente e territorio (+14,7%): è il segnale che si sta rafforzando questo segmento. Molta gente si è stancata di aspettare risposte da una politica che non c’è e si dà da fare in maniera autonoma.

Voi battete molto sul concetto di rete.
Sì, per un motivo semplice: mi dite come si può contrastare la povertà educativa se non si mettono assieme tutte le realtà di un territorio che si occupano di questa tematica? I finanziamenti dell’impresa sociale Con i Bambini non possono bastare a cambiare lo stato delle cose. Giovani e adulti devono farsi carico di questo problema e collaborare per arrivare a un cambiamento. Oggi ci sono tantissime persone che prestano aiuto volontario, magari non più quotidianamente, ma su progetti specifici come è stato per le raccolte di cibo e viveri per i Paesi in conflitto o le squadre che si sono formate in occasione di catastrofi ambientali.
Per rispondere ai cambiamenti sociali e facilitare l’accesso alle attività di volontariato a più persone, Movi vuole fare un focus sulla trasformazione del Terzo settore.
Desideriamo fare una ricerca in tutte le regioni, non solo nelle undici in cui siamo presenti con 469 soci e oltre 23mila volontari. In alcuni territori magari sarà un po’ più faticoso, ma sono sicuro che emergerà una fotografia del cambiamento in atto. Vogliamo formulare proposte di aggiornamento anche legislativo che guardano al futuro del volontariato, conservando i principi ispiratori e superando le forme non più sostenibili e non al passo dei tempi che viviamo: le presenteremo alle istituzioni, nella speranza che si possa modificare la situazione attuale. Non comprendo perché il Terzo settore debba avere dei privilegi rispetto al mondo associativo democratico che ha una sua funzione nel Paese. Perché un’associazione di genitori deve iscriversi al Registro unico nazionale, se non ha alcuna logica di natura economica? Dobbiamo avere pari dignità. Questa mancanza si avverte, al momento. Con la collaborazione dell’Università di Roma Tre e della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa faremo dei focus group nei territori, coinvolgendo le associazioni a campione. Non possiamo sapere quali dati emergeranno, perciò non ha senso parlare di aspettative. Intendo dire che non dobbiamo dimostrare qualcosa che abbiamo già in testa. Il metodo deve portarci ad ascoltare i territori e rappresentare effettivamente che cosa sta succedendo, anche attraverso il racconto delle buone pratiche.
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