Solidarietà & Volontariato

Via da Via Anelli. Si trasloca in cerca di integrazione

Complesso Serenissima: si chiude l’esperienza di un quartiere soffocato dalla delinquenza. Per gli immigrati appartamenti in quartieri diversi della città

di Elisa Cozzarini

Un parrucchiere in corridoio, due ristoranti, un bar, un idraulico, qualcuno che campava aggiustando le porte scassinate. E <b>Mafud,</b> un ragazzo tunisino disabile. Stava nella palazzina 27, quella sgomberata lo scorso ottobre. Viveva vendendo quel che capitava. Via Anelli era un mondo, oltre che il fulcro dello spaccio del Nord-Est. Un universo che in marzo scomparirà del tutto con il trasferimento fuori dal ghetto degli ultimi residenti. Fino a quel giorno, Mafud potrà lasciare la valigia al centro servizi Open Windows del Comune, in un edificio bianco basso ai piedi delle sei palazzine del complesso Serenissima. Ogni tanto Mafud passa in ufficio a cambiarsi. «Non sappiamo più come fare, abbiamo esaurito le possibilità di alloggio da offrirgli. Si rifiuta di tornare in Tunisia: solo l?idea è insopportabile, una vergogna rientrare senza soldi, per di più disabile», racconta <b>Ala Yassin</b>, palestinese, mediatore culturale. Lo sportello Casa dell?Open Windows è aperto tre volte alla settimana, ma durante gli sgomberi si lavora di più. <b>Matteo Zoso</b>, operatore, spiega: «Il nostro compito è registrare le richieste di trasferimento e organizzare la chiusura delle palazzine. Ma facciamo anche altro: indirizziamo le persone alla Croce rossa, ai servizi sociali di quartiere, al centro d?ascolto della Caritas. Mafud è uno dei casi difficili che seguiamo».

La sede della Croce rossa è a mezzo chilometro da via Anelli. Nel 2003 , nell?Open Windows, hanno gestito un ambulatorio e nel 2004 un progetto di formazione, orientamento e insegnamento dell?italiano alle donne, finanziato dalla Regione. «I problemi veri», spiega <b>Annamaria Colombani</b>, presidente della Croce rossa di Padova, «non li creavano i residenti. Anzi, loro erano le vittime, subivano il continuo via vai di spacciatori senza poter fare nulla. Di fronte all?amministrazione, gli stranieri sono soggetti deboli, con poca voce in capitolo». Per evitare la nascita di un nuovo ghetto, gli ex abitanti del Serenissima sono stati trasferiti in quartieri diversi della città: Mortise, Arcella, Brusegana, Sacra Famiglia, Guizza, Forcellini, etc. Le famiglie hanno contratti per quattro anni, i single per due, poi dovranno andarsene perché gli alloggi sono stati assegnati nell?emergenza, scavalcando le graduatorie Ater (Aziende territoriali per l?edilizia residenziale). Ma c?è chi, tra i primi trasferiti dopo gli sgomberi del 2005, ha già provveduto a trovarsi un?altra casa. Agli altri danno una mano dagli operatori della cooperativa Il Sestante, che segue i residenti in via di trasferimento. «Spieghiamo loro i regolamenti condominiali, che qui non esistevano. A via Anelli la vita è sempre stata un po? diversa, nel bene e nel male», dice <b>Rosanna Margheriti</b>, operatrice della cooperativa. «Ma l?inserimento in nuovi contesti abitativi non è così difficile: delle 450 persone trasferite, nessuna ha creato problemi gravi, al massimo qualche litigata».

Vita nel ghetto

Resta escluso chi non ha un contratto d?affitto regolare. Proprio come Mafud, e molti altri. Clandestini, abusivi, senza diritti. Chi, nell?ordine diverso del complesso Serenissima, nell?emergenza, almeno un posto per dormire o per lavarsi lo trovava. E poi scomparirà un luogo di aggregazione: il cortile tra i palazzi, dove il weekend arrivava un sacco di gente da fuori, per fare festa. Protetti, come dentro le mura di una città. Ci vengono ancora oggi che quattro edifici sono stati sgomberati e restano 200 persone, uno solo dei cinque cancelli è aperto e, dietro, c?è il ?muro? che ha fatto parlare di Padova fino in America. Passano a trovare gli amici. Anche con il freddo, si cucina sotto il portico dove una volta c?era la moschea, arrangiata sotto tendoni. E dove, spiando da una porta semiaperta, si vede addirittura un phone center.

Al passaggio la porta si chiude di scatto. Si respira diffidenza verso l?esterno, Padova, gli italiani, i giornalisti. Tutti quelli che, da fuori, per quindici anni hanno guardato la gente del ghetto con la lente del pregiudizio. «Anche loro si sentivano in gabbia», racconta <b>don Pietro</b>, della parrocchia San Pio X, quella di via Anelli. Lui e un gruppo di ragazzi vanno a trovarli il sabato, entrano negli appartamenti. «Ferisce il degrado, ma in quelle stanze piccolissime l?accoglienza è sempre buona». Intanto, al di là delle grate, le forze dell?ordine vigilano 24 ore su 24 che sia tutto in ordine. Dentro, chi gira con carrelli pieni di oggetti dal vicino centro commerciale, cibi e vestiti in vendita, chi chiacchiera, mangia, scherza. E poi, chi spaccia, gioca d?azzardo, si prostituisce. Due facce della stessa medaglia, ma i numeri dicono che il 90% dei residenti ha il permesso di soggiorno e lavora. A febbraio del 2005 il Comitato per il superamento del ghetto, che comprendeva diverse associazioni e in prima fila Razzismo Stop, ha fatto un censimento del complesso Serenissima. Su 438 intervistati dei circa 700 residenti nigeriani, marocchini, tunisini, pochissimi italiani, 310 avevano un lavoro con contratto, 238 a tempo indeterminato. Dieci erano in nero, 31 casalinghe, due pensionati, uno in cassa integrazione, 84 disoccupati. «Mica vanno a bere lo spritz in centro, sarebbero a disagio. Qui invece trovano punti di riferimento sociali. Anche a me sarebbe piaciuto viverci, se non fosse stato per la delinquenza e il degrado», dice Ala Yassin. «Qui ci si poteva incontrare all?aperto, come capita nei nostri Paesi d?origine».

Serenissima dei migranti

Ala ha studiato psicologia a Padova. A due passi dal Serenissima. Che in effetti era nato come complesso di alloggi per studenti. Poi, a metà degli anni 90, qualcuno ha iniziato ad affittare agli extracomunitari, accorgendosi che rende molto di più. Così via Anelli si è svuotata di studenti e riempita di stranieri. In un appartamento di 30 metri quadri riuscivano a vivere anche cinque. Così, come ricorda <b>Daniela Ruffini</b>, assessore alla Casa e all?Immigrazione, «i proprietari si sono arricchiti creando un circuito redditizio di affitti». «C?era anche chi, immigrato, faceva pagare anche 300 euro al mese per un materasso a connazionali clandestini», aggiunge Ala. Un business che ha fatto comodo a molti, quello del ghetto. Ora si volta pagina.

Vedi anche:
Cronistoria del complesso serenissima


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA