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Tutti in fila per le sarte del Triboniano

Il successo del laboratorio milanese dove lavorano 8 nomadi

di Daniele Biella

L’iniziativa della Caritas ambrosiana compie un anno.
«Per ora ai clienti chiediamo solo un’offerta, ma intanto queste donne stanno imparando un lavoro» Mettete otto donne rom in una via del centro di Milano e datele in mano ago e filo. Il risultato? Per vederlo di persona basta fare un salto ialla sartoria Taivè di via Bezzecca 4, a due passi da corso XXII Marzo. Da un anno a questa parte, per un minimo di tre ore al giorno, dal lunedì al venerdì, le otto rom lasciano i campi di via Novara e via Triboniano e arrivano al negozio-laboratorio per rammendare, cucire, reinventaregli abiti degli abitanti del quartiere. Il 22 ottobre Taivè – parola che significa “filo” in lingua romanì – ha soffiato sulla sua prima candelina e, come dimostra il viavai dentro e fuori il laboratorio, le commesse sono in netta crescita. «Segno che i clienti sono soddisfatti del lavoro, e che le rom hanno capito i vantaggi della produttività», sorride suor Claudia Biondi, referente del progetto per la Caritas ambrosiana.
«Il laboratorio è il risultato di un percorso iniziato almeno quattro anni fa con le donne dei due campi, persone che troppo spesso passano le giornate senza alcun contatto con l’esterno», aggiunge. In questo primo anno il percorso professionale è promosso dalla stessa Caritas ambrosiana e dalla cooperativa Intrecci e finanziato dal ministero del Lavoro (nell’ambito del progetto «Valore lavoro» di Regione Lombardia e Fondazione Ismu). Da oggi in poi sarà la Caritas a prendersi carico di tutto. Una spesa di 100mila euro l’anno, «che servono non solo per pagare le donne, che hanno un contratto con la cooperativa, ma anche le maestre di bottega che si occupano dell formazione e le due educatrici che le seguono»spiega suor Claudia, che postilla: «È una cifra molto onerosa, ma è un esperimento innovativo che sta dando ottimi risultati nell’integrazione».
Le otto rom (tre romene di origine, una serba, due kosovare, due macedoni, tutte regolari e selezionate dopo un colloquio) oltre a uscire dall’auto-isolamento del campo e a imparare l’italiano grazie ai corsi di lingua tenuti dai volontari, stanno acquisendo esperienza lavorativa e sociale utile al loro futuro.
«Il laboratorio, che non esercita attività commerciale ma chiede ai clienti un’offerta per la Caritas, è concepito come una fase di passaggio e a questo primo gruppo ne seguiranno altri», chiarisce suor Claudia, «il passo successivo sarà quello di proporre loro la creazione di una cooperativa di lavoro, per diventare lavoratrici autonome a tutti gli effetti». Ma le protagoniste come hanno vissuto questo primo anno di attività? «I primi giorni piangevo quando dovevo abbandonare il campo, non conoscevo la città, avevo paura», racconta una di loro, «poi ho accettato di soffrire per migliorare la mia condizione e quella della mia famiglia. Oggi riesco a sentirmi una donna come tutte le altre».


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