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Cooperazione & Relazioni internazionali

Carlo Urbani, 10 anni dopo nelle parole del figlio

Era il 2003 quando il medico, da anni in Oriente con la famiglia, perse la vita colpito dalla Sars, malattia che aveva contribuito a scoprire. Tommaso, oggi 26enne, ne rievoca la figura per la rivista Missioni Consolata, in un intenso articolo che vi proponiamo

di Daniele Biella

"Come sta Fatou?". Questo il titolo della rubrica che, dal 1999 in poi, Carlo Urbani, infettivologo cooperante già presidente della sezione italiana di Msf, Medici senza frontiere, teneva regolarmente su Missioni Consolata, testata mensile che si occupa di mondialità e solidarietà internazionale. La stessa rivista che, nel numero di luglio 2013, ospita un profondo ed emozionante ricordo di Urbani, originario di Castelplanio (Ancona) e morto a Bangkok il 29 marzo 2003 di Sars, Sindrome respiratoria acuta grave, da parte del figlio Tommaso, oggi studente universitario a Trieste, che fin da piccolo ha viaggiato con lui, la madre e gli altri due fratelli. Qui sotto l'articolo, uscito con il titolo "Il medico che realizzava i sogni".

Negli ultimi mesi sono stato invitato spesso per ricordare mio padre, per parlare di lui, come medico ma soprattutto come genitore. Sono arrivato addirittura fino a Taiwan e in Vietnam. L’affetto e la riconoscenza che ho trovato, anche in chi non lo conosceva, mi ha commosso. Per me non è un peso partecipare a queste cerimonie. Non lo faccio solamente per ricordare, ma soprattutto per portare avanti il suo, i suoi ideali. Gli ideali per i quali mio padre si è battuto durante il corso della sua vita, gli ideali nei quali credeva fortemente. Penso sia importante far conoscere alla gente la sua figura, per fare in modo che ce ne possano essere altre, per dare uno stimolo e un appoggio a tutti coloro che, ogni giorno, si battono per la difesa dei diritti umani e l’accesso alla salute. Perché alla base dell’avventura di vita di mio padre c’erano questi principi, coltivati sin da bambino, a Castelplanio. Spesso è stato ricordato il suo impegno con Mani Tese, da ragazzo, o ancora la creazione, assieme ad altri, del Gruppo solidarietà che si occupava e si occupa tuttora del sostegno a persone disabili. Iniziarono poi i primi viaggi all’estero. Insieme ad alcuni amici raccoglieva medicinali per poi portarli in paesi africani, dove l’accesso alla salute, alle cure sanitarie di base è un miraggio. Il suo era un sogno, ma un sogno che doveva diventare un obiettivo: la sua realizzazione lo avrebbe reso felice. Non accettava le condizioni nelle quali vivevano troppe popolazioni, dimenticate e vulnerabili. Quindi lui doveva agire, doveva essere in prima linea per aiutarli. Questo suo sogno lo realizzò quando iniziò a collaborare con Medici senza frontiere prima, e con l’Oms, Organizzazione mondiale della sanità poi. Lo scrive lui stesso in una lettera a suo fratello: «Sono cresciuto inseguendo i miei sogni, e ora credo di esserci riuscito». Questa frase riassume un po’ lo spirito che ha accompagnato mio padre nel corso degli anni, che lo ha portato a realizzarsi nel lavoro, come nella vita. 

LE CROCETTE SUL CALENDARIO
Lavoro e vita: si tende a pensare che queste due cose non possano convivere. Se si lavora troppo si rischia di trascurare la propria vita, la propria famiglia, e viceversa. Per lui non era così. Mio padre ha sempre avuto la grande capacità di portare avanti entrambe le cose. E non superficialmente. Ogni minima cosa era fatta con passione. Ecco, questo è il termine giusto: passione. Era appassionato del suo lavoro, della sua esistenza. Nei primi anni della mia vita, almeno da quando ricordo, lavorava a Macerata, collaborava con l’Oms e ogni tanto partiva in missione. In quegli anni ancora non c’era stata l’esplosione di Internet, i voli last-minute non erano un’abitudine, e le comunicazioni erano limitate… si scrivevano le lettere a mano! Insomma durante quelle missioni c’era una corrispondenza epistolare in cui mi raccontava (allora ero ancora figlio unico) il suo lavoro, la sua esperienza, e lo faceva con semplicità, la semplicità con la quale un padre racconta una fiaba al figlio. Una volta prima di una sua partenza ero arrabbiato, non volevo lasciarlo andare. Lui mi preparò una caccia al tesoro, lasciando indizi sparsi in tutta la casa, che dovevo completare con mia mamma una volta partito. Io non stavo più nella pelle, aspettavo quindi con ansia la sua partenza. Una volta trovato il premio però la nostalgia ricominciava, e con mia madre mettevamo le crocette sul calendario ogni giorno, aspettando il suo ritorno. Inutile dire la nostra gioia al suo rientro: ci raccontava dettagliatamente il suo viaggio, con foto, aneddoti, e regalini. Ricordo con gioia un ultimo giorno di scuola. Ognuno doveva portare un dolce fatto in casa, una crostata, un ciambellone. Io chiesi a mia mamma di farne uno, ma si offrì mio padre. Il pomeriggio del giorno prima, ancora nulla… Iniziavo a preoccuparmi. Lui era in ospedale a Macerata. La mattina, scendendo in cucina, trovai una casa fatta di biscotti e marzapane, completamente decorata. Sembrava vera. Lui mi guardò e chiese: «Ti sempiace? ». Questo era mio padre. In un modo o in un altro riusciva sempre a non far pesare la sua mancanza, e devo riconoscere che ci riusciva davvero bene! Ricordo con piacere gli anni in cui lavorava a Macerata, spesso quando si fermava a fare la notte lo raggiungevamo. Avevamo un piccolo appartamento dove stare. Erano bei momenti, ero felice perché eravamo tutti insieme. Semplici momenti di quotidianità che, come d’incanto, diventavano magici. 

DA MACERATA A PHNOM PENH 
Quando – era il 1996 – arrivò la chiamata di Msf per una missione in Cambogia, mio fratello Luca aveva appena un anno. Mio padre ci propose questa «avventura». Come risponderebbe un ragazzino di 9 anni se il padre gli chiedesse: «Volete venire con me in Cambogia per un anno?». Non saprei. Ma so come risposi io. E come risponderebbe una madre con un figlio appena nato? Probabilmente e comprensibilmente con un «no». Io ero entusiasta, mia madre di meno. Ma ci fidavamo di lui. Quello che faceva mi coinvolgeva in qualche modo, anche se non losapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un nuovo posto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Iniziai a seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a casa mio padre mi interrogava, dovevo prepararmi al meglio. Ricordo ancora il giorno della partenza. Un convoglio di amici e parenti ci accompagnò in aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova vita. Il primo impatto non fu affatto facile: caldo torrido, zanzare, scarafaggi, strade dissestate, spazzatura ovunque, tanta povertà… In Cambogia erano ancora presenti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi fece scoprire la povertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi bambini. Sembrano cose scontate, risapute, ma credo che non possano essere capite se non vissute. Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il momento del colloquio con il preside della scuola francese. Mi ero preparato minuziosamente il discorso con mio padre, quindi ero pronto. Entrammo nella scuola: palazzone giallo in stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi batteva a mille, mio padre cercava di tranquillizzarmi senza successo (mica poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi salutò e chiese come mi chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silenzio. Al terzo silenzio intervenne mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle. Eravamo increduli. Ma fu solo un episodio, poi mi integrai alla perfezione e dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo era felice. Per  ché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era soddisfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante le quali eravamo alquanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le periferie e le campagne, non era molto sicuro andare in giro. Ma era il suo lavoro. A Phnom Penh c’era il coprifuoco la sera, ma di giorno giravamo tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al mare. Partivamo in convoglio con diverse Land Rover di Msf insieme ai colleghi del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane andavamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna paterna. Fu in quell’occasione che mio padre organizzò un viaggio in macchina, in un altro paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese pochi anni dopo sarebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora. Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato. 

A OSLO E QUEL GIORNO SENZA STAMPA 
Quella mattina mio padre non c’era, era fuori città, doveva tornare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto era sotto assedio, e in città c’era la guerriglia. Ero a casa con mia mamma e mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film era realtà. Ma in quel momento l’unico mio pensiero era rivedere mio padre: l’aereo riuscì ad atterrare e per fortuna tornò a casa. Ci rifugiammo tutti in un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una grande famiglia, la grande famiglia di Medici senza frontiere. I primi giorni di attacchi e bombardamenti sembravano infiniti, le mura tremavano, si sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali camminavamo tutti i giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spettacolo macabro. Io non capivo, perché stava succedendo? E probabilmente, anzi sicuramente non mi rendevo nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo dimenticato. Un suo collega mi rimproverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma mi aiutò a rendermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi andavano in giro per soccorrere eventuali feriti. Dopodiché ci evacuarono a Bangkok mentre la situazione tornava alla normalità. Qualcuno potrebbe pensare: «Machi è quell’incosciente che porta la sua famiglia in guerra?». Non è così. Eravamo una famiglia, lui non sarebbe partito senza di noi, e noi non gli avremmo impedito di accettare quell’incarico. Una volta in Italia si tornò alla normalità. Io a scuola a Castelplanio, mio babbo a Macerata, mio fratello all’asilo, mia mamma al lavoro. Tutto normale, forse troppo. Grazie a mio padre avevo scoperto nuovi orizzonti, quegli orizzonti che tanto aveva inseguito e raggiunto insieme a noi. Quella vita mi stava stretta. Figuratevi a lui! Dopo l’anno in Cambogia aveva capito che poteva contare su di me per queste cose, un po’ meno su mia mamma. E come darle torto, portare due figli in Cambogia non era stato di certo come fare una passeggiata sul monte. In quegli anni mio padre fu eletto presidente della sezione italiana di Medici senza frontiere. E nel 1999 l’organizzazione vinse il premio Nobel per la pace. Lui andò insieme a tutti i presidenti di Medici senza frontiere alla cerimonia di consegna, ad Oslo. Purtroppo non se ne parlò molto in Italia di quel giorno speciale per Msf. Non si parlò di quei medici che lottano per assicurare un minimo di dignità e salute alle popolazioni dimenticate. Non se ne parlò: quel giorno c’era lo sciopero della stampa. 

COALIZZATI… PER CONVINCERE MAMMA 
Un giorno il mio babbo mi chiamò nel suo studio. Aveva un libro in mano. C’era la foto di un lago con degli alberi intorno e al centro un’isoletta con un tempio. «Tommy, questo è il lago di Hoan Kiem. Si trova ad Hanoi, la capitale del Vietnam. La leggenda narra che al suo interno viva una tartaruga gigante, che durante l’invasione cinese consegnò la spada all’imperatore vietnamita che liberò il suo popolo dagli oppressori cinesi. Se ti dicessi che c’è la possibilità di andarci a vivere?». Esplosi in un misto di gioia ed emozione, non riuscivo a parlare, era tutto troppo bello per essere vero, mi sembrava di vivere un sogno. La frase successiva fu: «Però devi aiutarmi a convincere mamma». Nemmeno a farlo apposta, mia mamma era incinta di Maddalena. Tempismo perfetto! Non fu semplice, ma mio padre con il suo carisma (e il mio appoggio) riuscì nell’intento. Mancava solo l’ufficialità. Per me era una vera sofferenza non poter raccontarlo a nessuno (anche per un po’ di naturale scaramanzia). Un pomeriggio di autunno, tornando da scuola, trovai mio padre seduto nel suo studio, serissimo. «Che è successo?», chiesi. «Nonsono stato scelto per il Vietnam». Sentivo tutta la sua delusione, che si aggiunse alla mia. Raramente lo avevo visto così, un conto era vederlo arrabbiato per qualche mio brutto voto a scuola, un altro era vederlo così. Poi la sorpresa. Un suo collega della Cambogia, suo grande amico, gli aveva voluto fare uno scherzo. In realtà ancora non s’era deciso nulla. Lo odiammo entrambi. Arrivò il 6 gennaio 2000. Il giorno dell’epifania, a Castelplanio, era usanza lanciare i palloncini dalla piazza del comune, dopo la messa. Ero lì con mia mamma e mio fratello. Mio babbo era rimasto a casa per lavorare. Ad un certo punto lo vedo arrivare in lontananza. Un sorriso a trentasei denti stampato in faccia. Capii al volo. Gli corsi incontro e gli saltai addosso. «Andiamo in Vietnam, Tommy!». Non dimenticherò mai quel giorno. Sei mesi dopo partimmo tutti insieme, con un passeggero in più, Maddalena, nata da due mesi. La partenza fu diversa rispetto alla Cambogia. Ad Hanoi mio padre aveva trovato una casa, e la situazione era completamente diversa. Noi eravamo diversi. Eravamo pronti per questo nuovo cambiamento, che sarebbe stato definitivo. Mio padre infatti, accettando l’incarico dell’Oms, si era licenziato dall’ospedale rifiutando l’incarico di primario. 

HANOI E L’ASILO DI MADDALENA 
L’arrivo in Vietnam fu magico. Odori, rumori, immagini che ho stampate in mente e nel cuore. Ogni volta che rimetto piede in quel paese mi sento a casa. E questo grazie a mio padre. Credo che in Vietnam raggiunse l’apice della sua carriera. Era molto impegnato, come sempre, anzi forse più del solito. Ma di nuovo faceva di tutto pur di farci essere felici. Non sto parlando di benessere materiale, ma interiore. Per noi era una gioia girare con lui. Non erano dei banali giri turistici. Tutt’altro. Scoprivamo la cultura, le usanze, i difetti di quel popolo (li adoro, ma i vietnamiti sono molto testardi!), ci mescolavamo tra loro, condividevamo tutto con loro. Io e mio fratello frequentavamo la scuola francese, mentre mia sorella era stata iscritta all’asilo vietnamita. Bellissimo, anche se a casa avevamo bisogno dell’interprete, dato che Maddalena parlava solo vietnamita. Mio padre era fiero di tutto ciò. Era riuscito in qualcosa di straordinario. E non sto parlando del lavoro. Ma della famiglia. Era riuscito, attraverso il suo impegno nell’aiutare gli altri, a farci capire cosa sia la vera felicità, il vero amore, la vera gratitudine. Che troppo spesso pensiamo solo a noi stessi quando in troppi soffrono perché perdono «la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro», come scrisse in una lettera. Era felice di vedere mia sorella parlare vietnamita, mio fratello giocare con i vicini di casa, me che raccontavo le birre di troppo prese con gli amici. I suoi sogni si erano avverati, realizzati sia nella vita che nel lavoro. E in tutto questo era riuscito anche a crescere i suoi figli. 

UN UOMO, UN MEDICO (MA NON UN EROE) 
Tutti sanno cosa è successo il 29 marzo del 2003. Mi crollò il mondo addosso. A me, a mia madre Giuliana, a mio fratello Luca (mentre – per fortuna – mia sorella Maddalena era ancora troppo piccola). A famigliari, amici, colleghi. Mio padre è stato spesso chiamato «eroe». Non sono d’accordo. Mio padre è stato un medico, un uomo che si è messo a disposizione dei più bisognosi. Ma non è l’unico. In tutto il mondo ci sono persone che rischiano la loro vita per aiutare i più deboli, i più sfortunati… questo non va dimenticato. In molti mi chiedono se, ogni tanto, rimprovero mio padre per la scelta che ha fatto. Lui mi manca. Ci manca. Ma sono convinto che, se dovesse rivivere quel periodo, mio padre farebbe esattamente le stesse scelte. Era la sua vita, la sua passione. E nessuno glielo rimprovererà. Sono passati dieci anni dalla sua morte, eppure molti dei suoi insegnamenti li colgo solo ora. Cerco di impegnarmi nel quotidiano per provare a rispettare i valori che egli ha difeso con tanta passione e amore. E, come detto all’inizio di questo ricordo, continuo ad accettare gli inviti che ricevo in Italia e nel mondo, per trasmettere il suo messaggio, per ricordare la sua figura di medico e uomo. Sono convinto che da lassù mio padre mi guardi. E probabilmente, considerando l’ironia di cui era largamente provvisto, si faccia pure due risate.


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