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Cooperazione & Relazioni internazionali

Ruanda, a 20 anni dal genocidio tanta voglia di riscatto

Il 6 aprile del 1994 iniziava la carneficina più terribile della storia: un milione di persone assassinate in poco più di tre mesi. "Oggi il paese sta vivendo una nuova vita, fatta di una pace sociale in cui le donne sono assolute protagoniste del cambiamento", spiega Patrizia Scuratti, cooperante dell'ong Avsi a Kigali

di Daniele Biella

Ruanda, vent’anni fa: il genocidio più veloce e atroce che la Storia ricordi. Era il 6 aprile del 1994, quando l’aereo dell’allora presidente in carica del piccolo paese centrafricano, Juvenal Habyarimana, di etnia hutu fu abbattuto a Kigali da alcuni estremisti del suo stesso partito per le sue concessioni verso gli odiati tutsi del Fronte Patriottico Ruandese (Fpr) nei colloqui di pace del giorno prima in Tanzania. La sua morte sdoganò gli 'squadroni della morte' hutu, i cui massacri ottennero l’appoggio della radio nazionale e delle truppe regolari ruandesi. In soli 100 giorni, almeno un milione di persone furono massacrate.

L’ong italiana Avsi arrivò nella nazione in guerra civile proprio in quelle settimane, per sostenere le vittime del conflitto con interventi di emergenza, che poi sono diventati progetti di sviluppo in vari settori: educazione (scuole pilota in cui a lato della didattica viene data molto importanza alle relazioni e alla partecipazione cittadina, progetti specifici per i bambini più vulnerabili a livello economico), sostegno psico-sociale (con almeno 2200 beneficiari diretti con le loro famiglie), supporto nutrizionale (formazione sulle tecniche agricole, anche con l’uso della metodlogia comunitaria Ffls promossa dalla Fao) ed economico (con il fiore al’occhiello dei 40 gruppi di ‘savings’, persone che si associano e con il mutuo aiuto finanziano reciproche idee impresariali). In tutto almeno 800mila persone raggiunte dall’aiuto umanitario, che Avsi porta avanti con 20 partner associativi locali, altrettanti cooperanti locali e un’internazionale, l’italiana Patrizia Scuratti, 45 anni, originaria di Udine, arrivata per la prima volta in Ruanda nel 2000 e, dopo interventi in altri paesi africani, oggi coordinatrice dei progetti dell’ong nel paese.

“L’aiuto umanitario va di pari passo con la vicinanza alla popolazione nella presa in carico delle conseguenze del genocidio, valorizzando ogni singola persona e la voglia di ogni ruandese di superare gli orrori del passato”, spiega Scuratti. “Per questo, con il passare degli anni, siamo sempre di più al servizio dei ruandesi, che sentono sempre più propri anche i principi dell’ong stessa (la stessa rappresentante Avsi nel paese, Lorette Birara, è del Ruanda, ndr)”. Ma come vive la gente il triste anniversario che si avvicina? “Con un enorme desiderio di riscatto, di costruzione della pace sociale a livello comunitario. In questo senso nel tempo anche la politica ha fatto notevoli passi avanti, con una legislazione che oggi è molto avanzata e con le donne, per esempio, che sono le vere protagoniste del cambiamento: metà ministri sono femmine, così come lo sono anche le cinque referenti di Avsi per gli altrettanti distretti in cui operiamo”, sottolinea Scuratti.

Oggi, a vent’anni di distanza, il nuovo Ruanda del presidente Paul Kagame, tra i fondatori del Fpr, è nel mezzo di una fase di forte crescita economica, con forti investimenti stranieri, in primis cinesi e sudcoreani, anche grazie alla legge che prevede la possibilità di aprire un’azienda in sole 24 ore e con forti sgravi fiscali per il primo anno di attività. Gran parte della popolazione ruandese, però, si trova ancora a fare i conti con le conseguenze del conflitto. Secondo l’Unicef, più della metà dei bambini ruandesi sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica e negli ultimi dieci anni è cresciuta del 50% la mortalità infantile dovuta all’Aids, nonostante i significativi progressi compiuti nel prevenire la trasmissione del virus da madre a bambino (programma Mctc). “C’è un contesto culturale in continua evoluzione, con l’obiettivo generale di realizzare appieno una sorta di ‘nuovo Ruanda’”, specifica la cooperante italiana. “L’esempio più evocativo è il fatto che in occasione del ventennale, per la prima volta, in ogni commemorazione del lutto il classico colore viola viene sostituito dal grigio, con l’obiettivo di arrivare al bianco negli anni successivi: un passaggio che vuole andare definitivamente al di là degli orrori, conservandone però vivo il ricordo”.

Che aria si respira oggi a livello di convivenza tra le due etnie coinvolte nei massacri? “E’ un discorso molto complesso, anche perché la divisione in due etnie è la semplificazione di un processo partito molti anni prima del genocidio e che i ruandesi ritengono innescato dai musungu, i colonizzatori belgi che prima si erano appoggiati in toto ai tutsi e poi vedendo il pericolo di una sollevazione da parte loro hanno fomentato gli hutu allo scontro sociale”, riporta Scuratti, “resta il fatto che oggi molte ferite si sono risanate, anche attraverso i comunque discussi tribunali popolari degli scorsi anni, anche se la rabbia rimane, in particolare tra la gente che è rimasta qui durante la guerra non trovando rifugio in Congo, Uganda o Burundi e quindi vivendo in prima persona le terribili azioni degli squadroni della morte”. Vent’anni dopo, quindi, c’è tanta ancora strada da fare, ma la strada sembra tracciata: “il Ruanda è ancora uno dei paesi più poveri del mondo, ma la spinta verso un futuro migliore si sente parlando con chiunque", ragiona la cooperante, "i ruandesi sono persone molto più riservate di altre popolazioni africane, ma sono molto diretti e disinteressati nel far capire quanto sia importante per loro lasciare definitivamente alle spalle la pagina più nera del loro passato”.


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