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Profughi, la portavoce di Frontex: “Stiamo salvando migliaia di vite”

Intervista a Ewa Moncure, dal 2012 all'Agenzia europea per la sicurezza delle frontiere esterne, che racconta: "Ogni giorno siamo chiamati dalla Guardia costiera italiana ed entriamo in azione in acque internazionali per operazioni di salvataggio". Ecco identikit, numeri e dettagli della flotta della missione Triton che di fatto oggi sta operando come Mare Nostrum

di Daniele Biella

La prima parola stampata sul retro del biglietto da visita dei funzionari di Frontex è inaspettata: Humanity. Ma non stiamo parlando dell’agenzia europea di controllo delle frontiere esterne, proprio quell’agenzia criticata da tanti per la sua ‘freddezza’ in un epoca terribile in cui migliaia di persone muoiono in mare nel viaggio della speranza in fuga da guerre e persecuzioni? Sì, e in particolare parliamo di Triton, la missione navale – rifinanziata di recente sull’onda emotiva del naufragio più grave di sempre, che lo scorso 18 aprile ha causato almeno 800 morti – il cui compito è pattugliare il mar Mediterraneo a difesa della Fortezza Europa. Attenzione, però, perché se la teoria è questa, la pratica può essere anche diversa. Nelle ultime settimane, a fronte del moltiplicarsi di imbarcazioni messe nelle acque dai trafficanti di uomini (in questo momento almeno una decina), le leggi d’onore del mare sul soccorso delle vite in pericolo prevalgono ancora più del solito: “Stiamo uscendo anche con le nostre navi più volte al giorno, su indicazione del Comando centrale della Guardia costiera di Roma, per effettuare salvataggi di emergenza in acque internazionali per operazioni Sar, Search and rescue (Ricerca e soccorso)”: a rivelarcelo non è un ufficiale della Marina italiana bensì la portavoce di Frontex, Ewa Moncure, che opera tra la sede centrale di Varsavia e le coste siciliane dove si rende necessaria la presenza dell'agenzia, che tra meno di una settimana aprirà "una base di coordinamento" proprio a Catania.

Iniziamo dalle forze in campo. Con quali mezzi opera Frontex attualmente nel Mediterraneo, attraverso la missione Triton?
Con l’aumento dei fondi stabilito dagli Stati membri dopo la strage di aprile la flotta è aumentata fino ad arrivare a 5 navi grandi, una dozzina di navi più piccole e veloci, 3 aerei e un elicottero. Il personale – che raggiunge le 320 unità – è tutto civile e di varie nazionalità europee, così come le navi provengono dalle flotte di Italia, Spagna, Belgio, Germania e Inghilterra. Collaboriamo in modo molto stretto con la Marina militare italiana, che ci chiede di uscire in operazioni Sar (in particolare a ridosso della Libia, ndr) non appena ce ne fosse il bisogno, e in particolare nelle ultime due settimane è stata impiegata ogni nave, arrivando a recuperare 54mila persone nel weekend appena trascorso e 5mila in quello precedente. Persone che poi vengono condotte a terra, in particolare in Sicilia.

Triton non è paragonabile all’operazione governativa italiana Mare nostrum del 2014, ma di fatto, sulla base di queste azioni, la sta ricalcando e il numero dei migranti che hanno perso la vita in mare da maggio in poi è diminuito. Significa che Frontex ha cambiato indirizzo, dato che è nata con l’obiettivo di controllo delle frontiere marine dell’Unione europea?
No, la missione rimane sempre quella. Ma è chiaro che la vita umana viene prima di tutto, quindi se c’è da salvare vite umane, si opera in tal senso. È fuorviante il luogo comune che vuole il personale di Frontex come mero controllore: siamo in mare, rispettiamo le leggi del mare, e quando dalla Guardia costiera di Roma ci viene chiesto di entrare in azione, non esitiamo mai. Salvare diventa la priorità, e solo in un secondo momento, ovvero dopo lo sbarco a terra e comunque quando il pericolo è cessato, riprendiamo a fare il lavoro principale della missione, ovvero il controllo dei flussi alle frontiere, l’identificazione di chi arriva, e altre attività connesse. Nelle operazioni navali congiunte, istituzionali e private, da gennaio a oggi sono state tratte in salvo sulle coste italiane 56mila persone.

Che tipo di identificazione opera il personale di Frontex?
Nei momenti successivi all’arrivo a terra, che sia nel porto e nei centri di prima accoglienza ogni migrante viene intervistato ma senza la richiesta di fornire le impronte: quella è un’operazione che non ci compete non riguardando il nostro mandato, e che compiono le forze di Polizia nazionale in altre sedi.

Il problema della persone che non vogliono rilasciare le impronte nel paese di approdo, Italia e Grecia in particolare, perché in tal caso il regolamento di Dublino non permetterebbe loro di raggiungere parenti in altri Stati Ue è grave, perché può generare situazioni di tensione molto forte tra i profughi e le forze dell’ordine. Come si può risolvere?
Ci sono decisioni europee che dovrebbero essere prese al più presto per arrivare a un cambiamento che coinvolga in primo luogo lo stesso regolamento di Dublino. Inoltre la proposta delle quote di accolti per Paese è auspicabile, anche se noi come Frontex non abbiamo voce in capitolo in tal senso perché siamo uno strumento operativo degli Stati membri, sebbene i nostri esperti siano comunque presi in considerazione nei vari tavoli di lavoro.

Non c’è il solo “fronte” italiano degli arrivi via mare, anche in Grecia la situazione è difficile…
Non solo è difficile, è molto grave. Perché in quei casi, sebbene il rischio di naufragio sia minore data la breve distanza tra Turchia e Grecia, i profughi, soprattutto siriani e pachistani, iracheni e afgani, approdano su piccole isole come Kos che non hanno alcuna attrezzatura per ospitarli. Stiamo parlando di 47mila persone dall’inizio dell’anno, un numero enorme rispetto al passato. A livello europeo è necessario aumentare gli sforzi e farlo il prima possibile perché l’emergenza umanitaria è insostenibile: in questo senso tra non molto Frontex rafforzerà la missione Poseidon per aumentare l'appoggio alle autorità greche.

Invece l’ingresso in Europa via terra, che riguarda almeno il 50% di tutti gli arrivi e certamente di più di quelli via mare, è sempre più blindato. La Bulgaria ha creato un muro con filo spinato di 80 chilometri, anche in Ungheria i profughi vengono detenuti e osteggiati. Come agire?
Nell’Est europeo oltre a chi scappa dalla guerra ci sono tantissimi arrivi dalla Serbia, dal Kosovo: tutte persone che non si fermano davanti al regolamento di Dublino e vogliono comunque arrivare in Germania o altrove nella Ue. Anche in quel caso siamo presenti e facciamo quello che possiamo ma serve una nuova strategia generale perché i flussi sono radicalmente cambiati anche solo rispetto a due anni fa.

A livello di opinione pubblica il lato umanitario del lavoro di Frontex fa comunque fatica a emergere. Ne siete consapevoli?
Ci rendiamo conto che spesso Frontex è criticata perché dal suo approccio prevale l’aspetto securitario, ma posso assicurare che tutti gli operatori, e stiamo parlando anche di personale islandese, portoghese e di altri Stati non direttamente connessi ai flussi migratori, sono in prima linea nel far prevalere il rispetto della v ita umana a tutto il resto. Chi opera con noi, dalla Marina a tutti gli altri enti con cui ci coordiniamo, riconoscono questo nostro modo d’agire che invece non viene rilevato in altri ambiti. Sarebbe ottimo se a ogni livello istituzionale europeo si provvedesse a far capire meglio possibile il nostro operato all'opinione pubblica, non limitandosi a rimarcare solo gli obiettivi strategici dell’agenzia ma anche il valore umanitario che mettiamo in campo.


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