Economia & Impresa sociale 

Società benefit: la certificazione è bottom-up

Dopo Bonomi, Randazzo e Mazzullo interviene il coordinatore di Human Foundation: «L’approccio scelto punta a rafforzare i processi di accountability dell’imprese non attraverso un’imposizione, piuttosto delineando un percorso di crescita all’interno dell’organizzazione»

di Federico Mento

Dopo gli inteventi di Aldo Bonomi, Roberto Randazzo e Alessandro Mazzullo il contributo di Federico Mento, coordinatore nazionale di Human Foundation, al dibattito su impresa sociale & società benefit

"Non credo sia necessario essere un raffinato giurista per valutare il progressivo deterioramento della qualità legislativa avvenuto durante la cosiddetta Seconda Repubblica. Dalla secondo metà degli anni 90' in poi, a livello sostanziale, il processo legislativo si è spostato dal Parlamento all'Esecutivo. Maxi-emendamenti, canguri, votazioni di fiducia costituiscono oggi gli strumenti principali attraverso cui si costruiscono le norme. Al di là delle valutazioni che si possono fare rispetto questa tendenza – direi quasi globale – ciò che emerge è un corpus, spesso confuso, di leggi che si affastellano senza una visione sistemica, talvolta con errori grossolani che necessitano di un ulteriore intervento. Parafrasando un vecchio adagio popolare, sempre di più il legislatore tende a fare le pentole, dimenticandosi dei coperchi.

Pensando, quindi, di trovare l'ennesima pentola priva di coperchio, mi sono approcciato alla disciplina sulle società benefit, "infilata" tra le centinaia di commi del maxi-emendamento del Governo alla legge di stabilità. In primo luogo, l’articolato appare molto agile, chiaramente influenzato dall’impianto normativo americano. In base a questa impostazione, un’impresa che vorrà acquisire lo status di società benefit dovrà redigere annualmente una relazione, da allegare il bilancio, in merito ai benefici raggiunti. Il documento dovrà soffermarsi sugli obiettivi, le modalità e le azioni implementate dagli amministratori finalizzate al raggiungimento dei benefici comuni, evidenziando, al medesimo tempo, gli elementi che possano aver influito sul processo. Un elemento sui cui è opportuno avviare una riflessione puntuale è quello legate allo standard che dovrà essere usato per la redazione della relazione. La norma stabilisce che la valutazione dovrà utilizzare uno standard di valutazione esterno.

Ci troviamo, dunque, al cospetto dell’ennesima certificazione-imposizione?

Addentrandoci negli allegati, possiamo affermare che il processo immaginato dalla norma è, fortunatamente, molto più bottom-up che top-down. Il Legislatore non richiede, infatti, alle società benefit di adottare un particolare standard di valutazione esterna nella redazione della relazione annuale. L’enfasi, semmai, è posta sulle caratteristiche di questo standard che dovrà essere esauriente e articolato nel valutare l'impatto della società e delle sue azioni nel perseguire la finalità di beneficio comune. Indipendente, trasparente e credibile, poiché sviluppato da terza parte che non sia controllata dalla società benefit o collegata con la stessa e possieda le competenze multidisciplinari necessarie a sviluppare lo standard.

La valutazione dovrà analizzare una serie di ambiti: la governance dell’impresa, i dipendenti, i portatori di interesse diretti/indiretti e l’ambiente. La norma non ha attribuito, inoltre, poteri di vigilanza al Governo rispetto al raggiungimento dei benefici attesi da parte dell’impresa. Il dispositivo, inoltre, non richiede alla società benefit che la relazione annuale sia oggetto di audit o venga certificata da una terza parte. A livello sanzionatorio, la società benefit che non persegua le finalità di beneficio comune è soggetta alle ammende commutate dall’AGCM in materia di pubblicità ingannevole.

Per tornare alle pentole e ai coperchi, l’approccio scelto punta a rafforzare i processi di accountability dell’imprese non attraverso un’imposizione, piuttosto delineando un percorso di crescita all’interno dell’organizzazione. L’idea di non avere un unico standard di riferimento per le terze parti, consentirà l’utilizzo di strumenti “proporzionali” rispetto alla complessità organizzativa di un’impresa, favorendo così l’accessibilità a questa nuova figura dell’ordinamento.

Non so quante imprese, nuove o già esistenti, sceglieranno di divenire “società benefit”, l’auspicio è quello che la norma possa contribuire a promuovere e diffondere la cultura dell’accountability nel nostro Paese e, perché no, smuovere il dibattito sull’impresa sociale che da troppo tempo sonnecchia al Senato".


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