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La montagna è più accogliente? Sì e vi spiego perché

Si moltiplicano le best practice di accoglienza diffusa di richiedenti asilo in montagna. A Giulia Galera, ricercatrice Euricse, abbiamo chiesto quali sono i fattori che determinano la buona riuscita di queste esperienze

di Sara De Carli

Sulle montagna del bellunese, la cooperativa sociale Cadore – una storia nella manutenzione ambientale e nel “turismo di comunità” – in risposta all’arrivo di richiedenti protezione internazionale sul territorio ha sperimentato un progetto di ospitalità diffusa impostata nell’ottica di offrire prospettive, cercando di “creare lavoro” attraverso progetti di autoimprenditorialità anche in forma associata. La cooperativa sociale K-pax, a Breno in Val Camonica, è riuscita a realizzare un sistema di accoglienza diffusa per richiedenti protezione internazionale che partendo da 11 Comuni della valle ne ha ormai “contagiati” ormai ben 30: non per nulla la Val Camonica è chiamata “la valle accogliente”.

Quando Fondazione Montagne Italia la scorsa estate presentò il suo primo rapporto e raccolse diversi esempi di accoglienza diffusa riuscita di richiedenti asilo in zone di montagna, destò stupore. Da Riace, in Calabria, elogiato anche da Forbes, al recupero degli antichi sentieri avviato a Pettinengo (BI) dalla onlus PaceFuturo, passando per il Coro Moro di Ceres (TO) e i suoi sette richiedenti asilo africani che cantono a cappella in piemontese, mandinka e Italiano (stanno raccogliendo fondi con il crowdfunding per realizzare il loro primo cd) o il progetto Parco Solidale della Valle Pesio (CN), con le sue attività di manutenzione del parco naturale… l’accoglienza diffusa in montagna sembra funzionare, a dispetto dell’immaginario di “montanari” chiusi, con forti resistenze identitarie. Il 18 luglio 2016, alla Camera, Fondazione Montagne Italia presenterà il suo 2° Rapporto, ma sul modello dell’accoglienza diffusa e micro, sulle prospettive di inserimento dei nuovi arrivati nel tessuto locale e sul ruolo della montagna nell’accoglienza degli stranieri e dei richiedenti asilo in molti in questo anno si sono interrogati. Ne abbiamo parlato con Giulia Galera, ricercatrice Euricse, specializzata nello studio delle potenzialità delle imprese sociali nei contesti in transizione (qui un suo articolo sul tema).

Cosa sta succedendo? È vero che l'accoglienza diffusa in montagna funziona meglio che altrove?

Per capire se un progetto di accoglienza funziona o meno credo sia importante far chiarezza innanzitutto sugli obiettivi che si prefigge di raggiungere: se il soddisfacimento di bisogni primari attraverso l’offerta di vitto, alloggio e assistenza legale in un’ottica emergenziale oppure l’inclusione sociale dei migranti attraverso la definizione di un progetto educativo trasversale che pone attenzione anche agli aspetti relazionali e formativi nell’ottica dell’acquisizione dell’autonomia.

Quando è il secondo obiettivo a essere perseguito, quella micro e diffusa è a mio avviso l’unica modalità di accoglienza che può funzionare in generale, nei centri urbani così come in quelli periferici o di montagna. Il buon funzionamento di questo modello di accoglienza è maggiormente evidente nelle località montane spopolate o scarsamente popolate dove l’arrivo dei migranti in generale ha un impatto amplificato: la diffusione delle residenze dei migranti in piccoli appartamenti ha un impatto molto meno destabilizzante nelle comunità di piccole dimensioni e quando i richiedenti protezione internazionale sono distribuiti sul territorio in piccoli gruppi, la popolazione locale non percepisce il loro arrivo come una minaccia alla propria presunta compattezza identitaria. Al contrario, è normalmente più incline a manifestare la propria solidarietà.

Basta “sparpagliare” i richiedenti asilo sul territorio e smorzare l’impatto del loro arrivo per far funzionare l’accoglienza?
Ovviamente no, la micro-accoglienza diffusa è una condizione necessaria ma non sufficiente. Funziona – e in montagna più che altrove può trasformarsi in un’occasione di crescita e rigenerazione per la comunità e il territorio ospitante – solo quando l’accoglienza è supportata da una gestione competente finalizzata all’inclusione sociale. Gli enti gestori “virtuosi” dediti all’accoglienza diffusa sono cooperative sociali radicate sul territorio, che hanno un’esperienza pregressa nell’ambito dell’inclusione sociale di persone in difficoltà. Nelle località montane, facendo rete con il territorio, le cooperative sociali responsabili sono riuscite a innescare forme di collaborazione con gli abitanti locali per il riutilizzo di campi incolti nell’ambito di progetti di agricoltura sociale, la cura del patrimonio pubblico e il rilancio di attività economiche in stato di abbandono. Esempi interessanti di micro-accoglienza diffusa in montagna sono offerti dal Cadore, dalla val Camonica e dalla val di Susa. In Val di Susa 20 comuni aderenti alla rete RECOSOL hanno recentemente sottoscritto un accordo con la prefettura di Torino per regolamentare l’arrivo di richiedenti protezione internazionale sul territorio, distribuendo 4 o 6 persone per Comune in base al numero di abitanti. Diversamente, nelle zone montane della provincia autonoma di Bolzano, vicino al confine del Brennero, è l’accoglienza diffusa in centri di medie-grandi dimensioni a essere ancora preferita dalla pubblica amministrazione. Se i vantaggi dell’ospitalità in grandi centri di gruppi di 30-50 persone sono fuori discussione dal punto di vista della sicurezza e della gestione economica, perché possono garantire un controllo costante e generare economie di scala, è evidente che questo modello è meno efficace nel favorire l’inclusione sociale dei nuovi ospiti nel tessuto locale. Della necessità di sperimentare forme alternative di micro-accoglienza, tra cui anche quella familiare, si è parlato insieme ai principali attori locali al seminario del 18 giugno scorso organizzato dalla Fondazione Alexander Langer a Bolzano in preparazione alla giornata del rifugiato “Il Sud-Tirolo: territorio di accoglienza, di transito e di confine. Sguardi sulla situazione attuale da diversi punti di vista”.

Infatti abbiamo casi in cui le comunità di montagna hanno avuto reazioni opposte: quali elementi quindi possono essere indicati come fattori che aiutano un'accoglienza positiva?
Molte comunità montane chiamate a ospitare richiedenti asilo si sono trovate impreparate e in alcuni casi profondamente lacerate tra favorevoli e contrari. In diversi casi si sono mobilitate attraverso raccolte firme per manifestare la propria indisponibilità ad accogliere richiedenti asilo, inducendo le amministrazioni comunali o le organizzazioni private inizialmente coinvolte a ritirare la disponibilità ad accogliere richiedenti protezione internazionale, precedentemente manifestata.
Gli atteggiamenti esclusivisti prevalgono quando il mutuo interesse della comunità riesce ad avere la meglio e questo con o senza l’appoggio delle amministrazioni comunali. Complice la paura alimentata da disinformazione e scarsa conoscenza storica, la stessa forza propulsiva, che altrove sostiene interventi di accoglienza diffusa e integrata, è in questi casi strumentalizzata per affermare l’egoismo e l’esclusivismo comunitario.
Credo che a orientare le reazioni della comunità in un senso piuttosto che in un altro contribuiscano diversi fattori di natura socio-politica tra cui il grado di disaggregazione del tessuto sociale. La presenza di organizzazioni di terzo settore in grado di fare massa critica promuovendo le istanze di giustizia sociale dei migranti è a questo riguardo fondamentale. Quando radicate sul territorio e in grado di attivare la popolazione locale, le organizzazioni di terzo settore possono infatti preparare le comunità locali nel percorso di accoglienza e conoscenza, costruendo ponti tra i nuovi arrivati e la comunità locali. Ciò avviene quando oltre ad avvalersi del contributo di educatori opportunamente formati e supervisionati, gli enti gestori possono fare assegnamento anche sulla collaborazione di volontari in grado di apportare quegli elementi sociali e relazionali, che sono essenziali nel processo d’inserimento dei nuovi arrivati.

Dal punto di vista dei rifugiati invece, finire in un piccolo paese di montagna non è un “meno” di opportunità, anche rispetto al progetto migratorio? Quei piccoli paesi di montagna sono luoghi da cui si va via…
Non credo che i territori montani offrano meno opportunità, anzi. Rispetto alla dispersione delle città, i territori montani sono secondo me un contesto più adatto, in cui il percorso volto al raggiungimento dell’autonomia dei richiedenti protezione internazionale può trovare adeguato supporto da parte della popolazione locale e innescare una forte responsabilizzazione collettiva, a vantaggio dei nuovi ospiti e della comunità stessa.
Ciò detto, nel lungo periodo, per alcuni migranti le località montane possono anche rappresentare il luogo dove mettere nuove radici e veder realizzato il proprio progetto migratorio: è stato così ad esempio per numerose comunità di pastori macedoni che si sono stabiliti nelle aree interne dell’Abruzzo, garantendo la sopravvivenza della pastorizia in quelle località. Ed è stato coì anche per le comunità albanesi che si sono insediate da più di dieci anni nell’Appennino toscano, trovando lì casa e lavoro. Nelle località in cui si sono stabilite, le comunità di immigrati rivestono un ruolo importante nella conservazione del settore forestale e nel contrastare i rischi di dissesto idro-geologico indotti dallo spopolamento.

C’è infatti il timore che con la “scusa” della chance del ripopolamento si vogliano “scaricare” su territori fragili problemi più grandi di loro…
Prescindendo da una concezione dell’immigrato esclusivamente come funzionale alla sopravvivenza di territori da cui gli italiani tendono a fuggire, in che misura le località montane potranno offrire concrete opportunità ai migranti rispetto al loro progetto migratorio dipenderà dalle competenze e aspettative di lungo periodo dei migranti stessi, da un lato, e dalle reali opportunità di occupazione offerte dal mercato del lavoro locale, dall’altro. A questo riguardo, le pratiche del Cadore e della Val Camonica offrono utili spunti di riflessione su come si possa valorizzare al meglio il capitale umano posseduto dai migranti e adoperarsi insieme per creare occasioni di lavoro nell’interesse delle stesse comunità ospitanti.

Foto di copertina K-Pax


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