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«I giovani afghani sono più forti di guerra e attentati»

In uno dei paesi più giovani del mondo - 18 anni l'età media - di fronte all'aumento di morti civili, minori compresi, e sfollati interni, c'è chi rimane per cercare una normalità che fa rima con sicurezza e per tutelare i diritti di chi più di tutti non ha voce: i bambini. Ecco l'esempio di Zubaida Akbar, 23enne, madre e advocacy manager della sezione afghana dell'ong Save the children

di Daniele Biella

Zubaida Akbar ha 23 anni, è madre da poco ed è advocacy manager di Save the children Afghanistan. La raggiungiamo nella Kabul di recente scossa dal terribile attentato di piazza perpetrato da un kamikaze affiliato a Isis, che durante una manifestazione per la pace ha ucciso almeno 80 persone. Zubaida è giovane, ma il concetto di gioventù in un Paese come l’Afghanistan è del tutto relativo: “siamo cresciuti con la guerra, ogni nostra azione deve considerare l’aspetto della sicurezza personale”, sottolinea. Si cresce presto, sotto le bombe. Ancora di più, se si decide di rimanere nel posto in cui si è nati per lottare per un futuro migliore.

Come si riesce a vivere mantenendo la speranza in un luogo così difficile come l’Afghanistan?
Cercando la normalità in ogni aspetto della propria vita. E’ chiaro che, in una zona in cui persiste una guerra da almeno 13 anni, non si tratta della solita normalità.

Resilienza?
Sì, dove quello che cerchiamo di fare è pensare che le cose possono cambiare in meglio, sempre e comunque. È vero che negli ultimi ani si è assistito a un peggioramento generale delle condizioni di vita, come dimostra il rapporto Onu uscito nei giorni scorsi: dal 2009 a oggi sono in forte aumento gli sfollati, almeno 155mila, le vittime di bombardamenti e attentati, almeno 5250, e dato ancora più preoccupante, vengono meno i diritti dei bambini, dato che 400 di loro hanno perso la vita è almeno 1100 sono rimasti invalidi. Preso dolorosamente atto di ciò, non dobbiamo però cedere allo sconforto, e ricordarci che sempre negli ultimi tempi altri aspetti sono invece migliorati.

Quali miglioramenti?
Mi riferisco alla condizione delle donne, per esempio. L’accesso alle Università è molto più immediato rispetto a qualche anno fa, ci sono molte donne laureate e anche a livello politico si sta muovendo qualcosa. Basti pensare che oggi il Parlamento afgano è al 23% al femminile. Ci sono media più liberi, associazioni gestite da donne, così come migliora la situazione anche in ambito lavorativo. Ovviamente non bisogna confrontare l’Afghanistan con altri Paesi, ognuno segue un proprio cammino e la nostra difficile storia recente, in particolare, parla da sé. Ma le cose stanno cambiando, ed è per questo che anch’io, come altri della mia generazione, preferisco rimanere nel mio Paese, per contribuire a un futuro migliore.

Ci sonmo media più liberi, associazioni gestite da donne. E il Parlamento è al 23% al femminile

Gli attentati spaventano, in Afghanistan come in Iraq o in Europa. Come gestire la paura?
Continuando saldamente a lavorare, ognuno nel proprio ambito, sociale o meno. E non facendo prevalere i sentimenti negativi. Mi spiego: da noi molte persone hanno perso la speranza, sempre negli ultimi sei anni tante persone si sono convinte a lasciare il Paese, li vedete arrivare anche in Europa. Si lavora sempre influenzati dall’insicurezza generale, e questo si ripercuote soprattutto sui bambini, che in gran numero non riesce nemmeno a frequentare la scuola, proprio perché la famiglia stessa non si sente al sicuro e deve prima badare alla sussistenza.

Qual è la preoccupazione maggiore per la società civile?
La priorità è proprio la salvaguardia i diritti dei minori, sia per la gente comune sia per chi opera in ambito umanitario come noi di Save the children. Loro non c’entrano nulla con il conflitto armato, devono potere vivere in sicurezza: abbiamo rilanciato in questi giorni l’appello al governo afghano affinché li tuteli in ogni forma possibile. Siamo presenti in tutta la nazione e ovunque vediamo i segni traumatici che la guerra lascia nelle loro vite: la nostra richiesta di lasciare i bambini fuori dai conflitti è estesa a ogni parte in causa, perché la loro educazione e protezione è responsabilità di ogni essere umano, a qualunque livello.


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