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Legnanese, qui l’accoglienza funziona ed è un modello per l’Italia

Sono 11 i Comuni, il più popoloso dei quali è Legnano, che grazie a un patto sovracomunale gestiscono 40 richiedenti asilo - tra strutture Cas e Sprar - in collaborazione con Prefettura e Terzo settore. "Fin da subito gli accolti hanno potuto imparare l'italiano e inserirsi nel tessuto sociale, ognuno ha attivo un percorso di volontariato e formazione lavorativa e cinque persone hanno trovato lavoro". Siamo andati a vedere da vicino come si crea un sistema capace di superare lungaggini burocratiche, paura e diffidenza

di Daniele Biella

Quando l’accoglienza funziona davvero lo capisci da una sola cosa: il comportamento degli accolti. Che non è niente di eccezionale, anzi, è intriso di normalità. Nei loro sguardi e nei discorsi: la ricerca di un lavoro, l’impegno e la successiva soddisfazione nel tenere e vedere pulito e in ordine il luogo in cui vivi, il rispetto reciproco con la popolazione locale, che entra ed esce dalle porte sempre aperte della casa ma lo fa bussando, con garbo. Benvenuti a Legnano, o meglio dire nel territorio degli 11 Comuni – di diversi colori politici, Lega Nord compresa – del Piano di zona del legnanese: è qui che dall’autunno 2014 per 25 persone richiedenti asilo che vivono all’interno di un Cas (Centro di accoglienza straordinaria assegnato a enti gestori con bando prefettizio) e altre 15 persone dislocate in appartamenti tramite progetti Sprar (Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, con enti capofila le amministrazioni comunali) stanno sperimentando una prassi virtuosa di gestione dell’accoglienza che siamo andati a toccare con mano. “In realtà la collaborazione sovracomunale, anche con Polizia locale, Diocesi e vari enti del terzo settore, tra cui la Fondazione Padri somaschi, è iniziata prima, nel 2011”, spiega Gian Piero Colombo, assessore alle Politiche sociale del popoloso – 60mila abitanti – centro dell’Altomilanese, governato da una coalizione di centrosinistra. “In quel periodo si era stretto un patto per la sicurezza e la coesione sociale perché c’era un problema legato all’occupazione abusiva di un terreno da parte di nuclei familiari rom e sinti.

Nel giro di alcuni mesi, in pieno concerto anche con il terzo settore locale, siamo riusciti a risolvere la situazione garantendo i diritti di tutti attraverso l’inclusione sociale: al momento della prima emergenza relativa ai richiedenti asilo, eravamo già pronti a entrare in azione sulla scorta di quell’esperienza”. Mettendosi subito a disposizione della Prefettura come rete di Comuni che potevano operare a fianco dell’ente gestore – la stessa Fondazione Somaschi, in questo caso – di fatto ha convinto il Prefetto a non gravare di ulteriori accoglienze il territorio anticipando un approccio che gradualmente si sta diffondendo (per ora, comunque, ancora a macchia di leopardo) in tutta Italia, ovvero l’accoglienza diffusa di poche persone in strutture medio-piccole anziché l’ammassamento. Per quanto riguarda il Cas di Legnano, le persone arrivate, la maggior parte da Gambia e Costa D’avorio con età compresa tra 18 e 25 anni, hanno trovato un luogo dove, in attesa del responso alla propria domanda di protezione, hanno subito trovato “corsi di italiano, possibilità di impegnarsi nel volontariato civico, e nel tempo, formazione, qualificazione professionale e avvio al lavoro, tramite accordi con agenzie d’impiego e cooperative sociali della zona”.

Lavoro, sì. Perché, se la totalità degli accolti oggi segue tirocini formativi, almeno cinque di loro hanno un impiego fisso, per esempio come cuoco, mediatore, educatore scolastico, giardiniere. “Le opportunità sono arrivate tutte dal contesto informale, la relazione territoriale con le persone che si è creata in questi due anni”, sottolinea Valerio Pedroni, referente della Fondazione Padri Somaschi, che ci accompagna a Quasimodo 21, la casa nell’omonima via adibita a Cas: una struttura di una società partecipata comunale che ha concesso il comodato alla stessa Fondazione. Il volontariato, lo sport,calcio e atletica in particolare, gli oratori (vedi in coda il report con tutte le attività formative e non avviate nel progetto) sono i luoghi collettori di conoscenza diretta. "La casa è in una zona periferica e industriale, ma la rete che cittadini e accolti hanno realizzato ha permesso di non isolare i richiedenti asilo dalla città”. Giova il fatto, indubbiamente, che i numeri non elevati delle persone presenti abbiano permesso il loro assorbimento sul territorio senza le preclusioni che si sono create in altre zone d’Italia. "E' un lavoro quotidiano che bisogna svolgere bene in ogni minimo dettaglio, anche per utilizzare in modo trasparente i fondi ministeriali per l'accoglienza (i 35 euro al giorno per accolto, di cui 2,5 vanno al migrante, il resto per la stipendo degli operatori e la gestione dei servizi, tra cui vitto, spese mediche e legali, ndr)", spiega Pedroni. "Così come per lo Sprar, dove è obbligatorio il rendiconto dettagliato, anche per la gestione del Cas elenchiamo nel dettaglio ogni spesa, è importante. E nel tempo siamo riusciti ad accantonare una quota da destinare a singoli progetti per l'autonomia socio-lavorativa delle persone accolte".

Mentre visitiamo i due piani dell’edificio, compresa la cucina dove è in cottura l’onnipresente – come da tradizione in particolare per le persone dell’Africa Subsahariana – riso che verrà poi accompagnato a pollo o pesce, il via vai è intenso perché è tardo pomeriggio e molti inquilini rientrano dalle attività della giornata. “Il rapporto diretto e trasparente con la popolazione locali si è creato e continua anche tramite incontri pubblici, momenti di scambio come la prossima cena di Natale o riunioni con i gruppi di volontariato all’interno della stessa struttura”, sottolinea Paola Dambrosio, che lavora per la Fondazione come coordinatrice di Quasimodo21. “Di recente è venuto un gruppo di 20 studenti delle superiori che voleva conoscere chi erano le persone accolte sul proprio territorio dopo averne sentito parlare”.

L’aspetto dell’incontro, della conoscenza che supera i pregiudizi e le distanze, è l’aspetto più concreto che erge a modello quanto sta accadendo a Legnano, Canegrate e dintorni: nel Cas come nelle case Sprar (gestite con ente capofila il Comune di Legnano in collaborazione con Fondazione Somaschi e e cooperativa sociale Intrecci), tra cui quella parrocchiale legnanese concessa dal sacerdote della Chiesa del Redentore, che visitiamo assieme a Dambrosio e al suo collega Andrea Testoni, con all’interno otto persone provenienti dall’Afghanistan, alcuni rifugiati altri richiedenti asilo anch’essi impegnati in attività sul territorio in attesa del responso della loro domanda. Qui la sensazione di “normalità” è ancora più immediata: la vicinanza alla Chiesa, in pieno centro città, è un ulteriore valore aggiunto.

Il presente, con questi numeri, è positivo. Ma il futuro? “La scorsa primavera la Prefettura si era detta interessata a riutilizzare dopo 15 anni di disuso la caserma Cadorna per ospitare almeno 300 persone dopo lo sbarco in Italia”, sottolinea l’assessore Colombo. “Coem Comuni dell'Altomilanese, ovvero ooi 11 amministrazioni insieme alle altrettante del castanese, abbiamo chiesto che fosse avviato invece un percorso di collaborazione nel quale avremmo trovato noi, se necessario, le strutture, distribuendo i richiedenti asilo nei territori: la Prefettura ci ha ascoltato, e oggi siamo in trattativa in quella direzione, arrivando a ipotizzare una quota complessiva di 650 persone, a fronte di 250mila abitanti della zona in questione”. Di fatto, questo patto sovracomunale ha anticipato quello che poi l’ex ministro Alfano ha scritto nero su bianco in una direttiva ai Prefetti: chi aderisce al percorso Sprar, promuovendo l’accoglienza diffusa gestita direttamente dagli enti locali, non sarà oggetto di aggiuntive imposizioni di Cas prefettizi sul territorio. Nello stesso tempo, il patto è anche precursore della quota di richiedenti asilo per Comune che l’Anci, l’Associazione di Comuni italiani, sta discutendo in questi mesi con il Ministero dell’Interno, che si dovrebbe attestare sui 2,5-3 accolti ogni mille abitanti. In un periodo storico dove il tema dell’accoglienza a chi lascia la propria casa in modo forzato o per migliorare le condizioni di vita genera atteggiamenti contrastanti e a volte di chiusura, l’esperienza dell’Altomilanese insegna: si può fare, e fare bene.


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