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Ho un tumore, sarò mamma?

Avere un tumore ed essere mamma sembrano due parole assolutamente in conflitto, una legata alla vita, l’altra alla morte. «Invece sono due parole che devono convivere, senza conflittualità, superando l'idea di dover scegliere fra la mamma e il bambino». All'ospedale San Raffaele di Milano c'è un ambulatorio dedicato, che giovedì presenta la sua attività: perché cambiare la cultura è fondamentale

di Sara De Carli

Avere un tumore ed essere mamma: sembrano due parole assolutamente in conflitto, una così esplicitamente legata alla vita, l’altra così profondamente legata alla morte. «Invece sono due parole che possono convivere, anzi devono convivere, senza conflittualità. A volte è impossibile, ma tante volte sì. Allora è doveroso portare a termine la gravidanza facendo la chemioterapia, senza scegliere fra la mamma e il bambino»: la dottoressa Giorgia Mangili è la responsabile di ginecologia oncologica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Parla con voce decisa, con in testa le sette pazienti che ha seguito nel 2016, con un tumore diagnosticato o insorto nel momento più bello della vita di una donna, l’attesa di un figlio: un evento raro ma non eccezionale, se è vero che solo pensando al tumore al seno, il più diffuso tra le donne, si mette di mezzo una volta ogni 1.000/1.500 gravidanze. «Culturalmente si tende ancora a guardare a queste situazioni secondo la logica di un conflitto materno/fetale e del sacrificio di uno dei due: le mamme eroiche che muoiono per far nascere il figlio o il bambino sacrificato per curare la madre, prospettive entrambe terribili. Questo deve cambiare, non c’è conflitto fra madre e figlio, possono e anzi devono essere curati bene entrambi, non serve nemmeno come un tempo aspettare la 30esima settimana per far nascere il bambino e iniziare le terapie della madre», spiega Mangili. Per poter seguire queste situazioni, serve però che tante specialità e competenze lavorino insieme, coordinandosi: ginecologi esperti di patologia della gravidanza, oncologi, oncologi ginecologici, ecografisti specializzati, radiologi, biologi, neonatologi… «Tre anni fa abbiamo avviato un percorso di presa in carico completo e questo può fare la differenza», racconta la dottoressa.

Di tutto questo si parlerà giovedì 19 a Milano (ore 18 alla Casa dei Diritti), nell’incontro “Ho un tumore, sarò mamma? Salute e fertilità della donna
in ambito oncologico”, organizzato da Salute allo Specchio, la onlus che lavora nel reparto di oncologia del San Raffaele (ne abbiamo parlato qui). E se essere mamma “con” un tumore non è più qualcosa di indicibile, a maggior ragione non lo è essere mamma “dopo” un tumore: «il problema però è che alla fertilità non si può pensare dopo, bisogna pensarci per tempo, subito, contestualmente alla diagnosi stessa del tumore», afferma la dottoressa Mangili. Le stesse tecniche utilizzate in medicina riproduttiva possono essere utilizzate per dare alle donne a cui è stato diagnosticato un tumore la chance della maternità, salvaguardando la loro fertilità: secondo una guida dell’Istituto Superiore della Sanità del 2012, una donna su 49 svilupperà un cancro fra la nascita e i 49 anni e la metà avrà una compromissione della fecondità.

La tecnica più usata per mettere “al riparo” la possibilità di diventare madre è la crioconservazione degli ovociti, quella più innovativa la crioconservazione del tessuto ovarico: il primo bambino al mondo nato da una madre che ha utilizzato questa tecnica ha visto la luce a Bruxelles nel 2004. Al San Raffaele dal 2011 esiste un ambulatorio dedicato, aperto un giorno alla settimana, con una psicologa specializzata nell’incontrare pazienti a cui è stata appena diagnosticato un tumore, un ginecologo oncologico e un medico di medicina riproduttiva, con una assoluta condivisione di competenze e linguaggi. «Il fattore “tempo” è fondamentale, perché a volte per iniziare la terapia non si possono aspettare nemmeno i cinque giorni che al massimo potrebbero passare tra la diagnosi e l’ambulatorio: qui non ci sono liste d’attesa e gli oncologi hanno il cellulare dei membri del team.

Si tratta di giovani donne che hanno avuto una diagnosi di tumore da pochissimi giorni, a volte tanto giovani da non aver mai pensato alla maternità, per loro e per le loro famiglie l’urgenza è avviare la terapia. Il fattore tempo è importante per far accettare le tecniche di preservazione della fertilità: «oggi ad esempio non serve nemmeno più attendere un momento particolare del ciclo per la stimolazione ovarica», spiega la dottoressa Mangili. Sono 130 le donne passate da questo ambulatorio del San Raffaele che hanno crioconservato i propri ovociti, più del doppio le pazienti viste (non sempre purtroppo ci sono le condizioni per poterlo fare) e cominciano ad arrivare qui anche donne in cura presso altri centri. Numeri piccoli? Non proprio. «Il primo lavoro dell’Oncofertility Consortium è del 2007, non sono nemmeno dieci anni. E pensi che anche in Paesi che sembrano più all’avanguardia di noi, secondo le statistiche solo il 4% delle donne con un tumore riceve una tecnica di preservazione della fertilità. Curiamo il tumore ma non tutto quello che c’è attorno, culturalmente c’è molto da fare», spiega la dottoressa. «Non si tratta di dare un figlio a tutte le donne con un tumore, ma di mettere tutte quelle che lo desiderano nelle migliori condizioni possibili per provare a realizzare il loro desiderio, mettendo a disposizione tutte le tecniche possibili». Quella della crioconservazione del tessuto ovarico è una frontiera ancora più recente e innovativa, con una trentina di donne che hanno scelto questa strada. «Bambini nati qui da noi non ce ne sono ancora, ma abbiamo iniziato solo nel 2011, è poco»: quest’anno forse, chissà, al San Raffaele arriverà anche la cicogna.

Le foto dell'articolo, di Marco Casiraghi, sono tratte dal backstage della mostra fotografica “Oltre lo specchio. Camei di donne”, sull'attività di Salute allo specchio. La mostra verrà inaugurata giovedì sera.


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